Ilaria Cucchi ha detto che ora finalmente suo fratello può riposare in pace. Ora che sono stati condannati (seppure solo in primo grado) i carabinieri ritenuti responsabili del pestaggio che poi ha provocato la sua morte. Non credo che Stefano Cucchi possa riposare in pace. Provo a spiegarvi perché. Per due ragioni, la seconda è la più importante. La prima ragione è che non sono convinto che una condanna possa rasserenare qualcuno. Quando una persona viene condannata a molti anni di prigione, quando una persona entra in prigione, io non festeggio mai. Altra cosa è l’accertamento della verità. Che invece è molto importante, perché ci aiuta a capire, a correggere, a giudicare. So però di essere molto isolato su questa posizione, e dunque, oggi, non insisto.
La seconda ragione riguarda il motivo vero per il quale Stefano Cucchi ha perso la vita. Il motivo vero è semplicissimo: il suo arresto. Ed è l’aspetto di tutta questa vicenda del quale si parla meno. È chiaro che pestare un detenuto è una cosa orribile. Per la debolezza del detenuto, per la violazione delle regole della civiltà, oltre che del codice penale, per la vigliaccheria del gesto. Ed è chiaro che diventa una cosa ancora più orribile se provoca danni gravissimi al detenuto, o addirittura la morte come è stato nel caso di Stefano Cucchi. E per queste ragioni l’atteggiamento dei leader politici – penso a Salvini, ma non solo a lui – che cercano di ridimensionare la gravità di questo delitto, è per me non solo sbagliatissimo, ma soprattutto assolutamente irrazionale. Non c’è nessuno che può razionalmente ritenere che non sia grave e indegno massacrare di botte un detenuto, o comunque usare violenza fisica nei suoi confronti. Specialmente se – come è avvenuto – questa violenza è del tutto ingiustificata, non è una reazione a un atteggiamento aggressivo della vittima. E tuttavia a me pare che il problema di fondo resti quello del carcere. Perché Stefano Cucchi è stato arrestato? Aveva in tasca qualche grammo di marijuana e due o tre dosi di coca. Sicuramente non era un narcotrafficante. Era un consumatore di droghe. Che senso ha mettere in prigione chi consuma droga? È pericoloso per la società? Ha danneggiato qualcuno? No. Qual è l’idea che sta dietro il suo arresto? L’idea che la nostra società deve richiedere ai suoi componenti un comportamento che risponda a un certo schema etico; e chi non rispetta questo schema etico deve essere punito.

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Punire una persona perché si droga è una regola molto simile a quelle imposte da chi pensa che vada punito chi pratica il sesso omosessuale, o chi commette adulterio, o chi consuma alcool o cibi proibiti. Noi giustamente ci indigniamo con chi usa la legge per colpire i comportamenti che le autorità ritengono non rispondenti a una certa regola o alle norme di una religione, o di una setta, o di una gerarchia. Come succede in alcuni Paesi islamici. Perché allora scriviamo nella nostra legge che chi viene trovato con in tasca qualche grammo di marijuana o qualche dose di cocaina deve essere messo in manette e punito? E poi c’è la questione del carcere preventivo. Cioè della punizione immediata, senza processo. La nostra legge prevede che possa essere imprigionato, prima della condanna definitiva, chi minaccia la fuga, o di inquinare le prove della sua colpevolezza o chi potrebbe reiterare il reato. Naturalmente le prime due condizioni non esistevano nel caso di Stefano Cucchi e in nessun caso analogo. Esisteva invece la terza condizione, la reiterazione del reato, se si considera reato l’uso della droga, che però non è considerato reato dal codice penale. Il problema è che le persone nelle stesse condizioni di Cucchi, e cioè imprigionate per uso della droga o per il piccolo spaccio (che non ha niente a che vedere con il narcotraffico) sono migliaia. Riempiono le nostre carceri. Anzi, sono la ragione fondamentale del sovraffollamento delle carceri. Vi cito i dati degli anni scorsi. Al 31 dicembre del 2017 i tossicodipendenti in prigione erano 14.706 su una popolazione di 57.608 detenuti. Cioè i tossicodipendenti erano più del 25 per cento. Al 31 dicembre dell’anno successivo, cioè del 2018, le cose erano peggiorate. I detenuti in prigione per violazione delle norme sugli stupefacenti erano più di 21mila su poco meno di 60 mila detenuti. Quindi la percentuale era salita al 35 per cento.

Sono i numeri e le percentuali più alte d’Europa. In Europa i detenuti per droga sono mediamente il 18 per cento della popolazione carceraria. Il Paese con più detenuti per droga, dopo l’Italia, è la Spagna con meno del 20 per cento. Lo scarto è impressionante. Naturalmente anche in Europa il problema è serissimo. 10 mila tossicodipendenti in prigione in Francia o in Germania sono comunque tantissimi. Chi scriverà la storia, tra un secolo, resterà a bocca aperta di fronte a queste cifre. L’idea che nella civilissima e spocchiosa Europa, nel 2020, restasse in vigore una legislazione anti-droga molto simile alla Shaaria, sembrerà una stranezza inspiegabile.  Non è un problema secondario. È decisivo per misurare il grado di sviluppo della nostra civiltà. Prima di tutto perché se si abolissero le leggi che rendono reato, di fatto, l’uso delle droghe, si risolverebbe il problema del sovraffollamento delle carceri, che rende del tutto illegale la situazione delle prigioni in Italia. E in secondo luogo perché nelle leggi che prevedono l’arresto e la detenzione dei tossicodipendenti si rispecchia un’idea di fondo di giustizia. Quale idea? Quella che immagina la giustizia come un fatto essenzialmente vendicativo e di controllo sociale. E che dunque prevede ferocia e spietatezza nei confronti di chi non risponde a un modello di comportamento definito. Non c’è nessuna ragione di sicurezza che possa spingere all’incarcerazione dei tossicodipendenti. C’è solo la ragione del bisogno di punire e di normalizzare. Stefano Cucchi è finito in mano ai suoi aguzzini per questo. Per queste leggi inumane. Per la infame cultura proibizionista che è ancora largamente maggioritaria dell’opinione pubblica. Lo dico con grande affetto e quasi con commozione a sua sorella Ilaria: no, Ilaria: Stefano non potrà riposare in pace finché saprà che 20 mila suoi fratelli, ragazzi come lui, stanno marcendo in una cella.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.