Ci sono almeno due verità sul caso della morte di Stefano Cucchi: una disputata; l’altra negletta. La verità disputata, per quanto infine sigillata in una decisione giudiziaria, è che Stefano Cucchi è stato ucciso, e che la morte è avvenuta a causa del pestaggio cui il giovane è stato sottoposto da parte dei carabinieri che l’avevano in custodia dopo l’arresto. La verità negletta riguarda invece il tempo e i fatti che vanno da quella violenza al decesso. C’è stato un bel film (Sulla mia pelle, 2018) a lambire quest’altra verità, ma non poteva ridondare da quell’opera cinematografica la somma di trascuratezza burocratica e istituzionale che contrassegna questa tragedia.

Molto si è indugiato, e con contrapposte propalazioni, su quel che successe dal momento dell’arresto, la sera del 15 ottobre del 2009, sino al mattino successivo: la sopraffazione patita da Cucchi, il drogato intemperante rimesso in riga, secondo l’oscena rappresentazione di certa pubblicistica, o il povero uomo che entra sano in una caserma e ne esce massacrato; le forze dell’ordine, ingiustamente messe alla berlina per qualche comprensibile eccesso su un malvivente che resisteva alla cautela di cui era destinatario, o il poveretto su cui gratuitamente infieriva l’aguzzino in divisa, impegnato a nascondere le prove del proprio misfatto e a coprire le complicità di chi vi aveva partecipato; lo scrutinio della fedina penale e persino della moralità di questo spostato, vittima della propria devianza e della propria dipendenza dalla droga (“E’ stata la droga a portarlo lì!”, proclamava l’avvocatura d’ufficio del benpensante reazionario), o invece la triste considerazione che una persona fragile, quando è affidata alle cure di chi tutela la pubblica sicurezza, deve riceverne semmai di più, non meno perché tanto è solo un tossico.

E febbrile discussione pubblica si è avuta dopo, con una ricognizione a ritroso dal momento della morte sino a quel mattino del 16 ottobre 2009: quando Stefano Cucchi, dopo il pestaggio, è portato davanti ai magistrati chiamati a convalidarne l’arresto. E furono investigazioni e requisitorie sui depistaggi, sulle contraffazioni dei verbali, sulle responsabilità dei medici, ancora su quelle dei militari e dei secondini… Ma poca attenzione, e tanto meno angosciata, si ritenne di prestare ai motivi per cui Stefano Cucchi era subordinato a giustizia: la gestione di modestissime quantità di stupefacenti, per un’ipotesi di reato moderatamente offensiva e non per caso disciplinata in modo assai tenue.

E nulla, soprattutto, si obiettò circa il fatto che Stefano Cucchi, che versava in condizioni giudicate allarmanti quando si trattava di valutare il comportamento anteriore e noncurante dei militari e dei medici che poche ore prima l’avevano a disposizione, e ai quali si addebitavano autonome responsabilità per aver lasciato correre quella situazione di bisogno e sofferenza, nulla, dicevo, si argomentò, tanto meno per denunciarne l’urtante evitabilità, a proposito del fatto che un magistrato dell’accusa pubblica, prima, e un giudice, poi, quel giorno di ottobre rispettivamente chiesero e ordinarono che Stefano Cucchi fosse imprigionato. Non andò solo, Stefano Cucchi, alla caserma in cui fu pestato: vi fu portato dai carabinieri che percepirono la commissione di quel lieve delitto, quei pochi grammi di sostanza proibita. Ma Stefano Cucchi non andò solo nemmeno nel carcere in cui la sua vita fu interrotta: chiese l’accusa pubblica che vi fosse mandato, e fu un giudice a disporre che ci andasse.

Pestato da quei carabinieri, Stefano Cucchi morì in carcere e di carcere. Qualcuno reclamò e qualcuno decise che quel disgraziato, con gli occhi enfiati e gravi di quei vistosi depositi di sangue, claudicante, carico delle percosse che sarebbero diventate l’esclusiva ragione di scandalo e riprovazione per l’orribile vicenda che lo ha coinvolto, da quell’udienza dovesse essere mandato non a casa propria, eventualmente in ristrettezza domiciliare, non in una struttura sanitaria, non in un centro di riabilitazione, ma dietro le sbarre di un carcere.
Tutte queste cose sono note, ma appunto neglette. Perché si può ancora dire che un cittadino muore malmenato dai carabinieri, ma non che muore in nome della legge.