Il caso Facebook e l’importanza di una società digitale consapevole
Sui social network, nessun pasto è gratis: la gratuità nell’epoca digitale
Nel 2018, l’Antitrust ha così comminato a Facebook una sanzione di dieci milioni di euro per violazione degli articoli 21 e seguenti del codice di consumo. La gratuità della piattaforma è solo percepita, ma non sostanziale: non piaghiamo in denaro, è vero, ma cediamo dati.
C’è stato un tempo in cui, sulla pagina di accesso a Facebook, campeggiava una suadente frase: è gratis e lo sarà sempre. Invogliati dalla gratuità proclamata con così tanta perentorietà, sempre più persone coltivavano l’illusione di uno spazio libero dalle logiche degli scambi economici e dai necessari patti e controprestazioni che connotano il vivere civile.
E se fate fatica a coltivare memoria di quello slogan, è perché da qualche anno è stato forzatamente rimosso, dopo una lunga istruttoria di varie istituzioni di Paesi UE, tra cui una dell’Autorità Antitrust italiana sfociata poi in un contenzioso giudiziario.
Ci si accorse, in poche e semplici parole, che non vi era richiesta di una dazione monetaria all’atto dell’iscrizione ma che del pari, alla luce delle clausole di servizio della piattaforma social, era impossibile parlare di effettiva gratuità: ad essere ceduti non erano soldi, ma dati e il consenso, spesso tacito perché in ben pochi hanno letto le condizioni contrattuali di uso, a ricevere continuamente pubblicità modellata mediante profilazione sul nostro essere e sui nostri gusti.
Nel 2018, l’Antitrust ha così comminato a Facebook una sanzione di dieci milioni di euro per violazione degli articoli 21 e seguenti del codice di consumo, una sanzione che pur dimezzata dalla giustizia amministrativa, che non ha condiviso tutte le censure mosse dall’Antitrust, ha trovato conferma nella parte in cui opina la assoluta valutabilità in termini economici dei dati personali.
La gratuità, soltanto percepita ma non certo sostanziale, nell’epoca digitale esplica una notevolissima valenza: più che considerazioni prettamente, ed esclusivamente, economiche, questa gratuità produce dinamiche relazionali e di potere non dissimili dal ruolo del dono nelle società tribali.
Secondo Marcel Mauss, che sul dono ha costruito una notevolissima teorizzazione generale del potere e delle sue forme confermative, il dono nelle società primitive e tribali si atteggia quale celebrazione visibile e segnaletica di libertà e del pari di chi davvero detiene il potere.
Soltanto chi occupa una determinata posizione e ha una certa disposizione di animo può donare. Considerazioni non dissimili svolse Georges Bataille, ne ‘Il limite dell’utile’, il quale riflettendo sull’accelerazione dei processi di consumo, sulla speculazione e sulla frenesia quasi mistica dell’accumulazione, rilevò come e quanto il dono, e il superfluo, prendendo a oggetto di analisi soprattutto il ‘Potlatch’ delle tribù native d’America, diventi una modalità auto-confermativa delle relazioni di potere.
La gratuità è psicologicamente un potentissimo magnete, basta pensare alle strategie di marketing concernenti i ‘give-away’ ma nel caso del digitale siamo davanti un fenomeno decisamente diverso: innanzitutto, perché non siamo al cospetto di un autentico dono, di una liberalità, ma di una strategia di occultamento del portato controprestazionale.
In secondo luogo, perché dietro queste politiche commerciali si nasconde comunque un potente afflato intrinsecamente politico, di affermazione della centralità e della indispensabilità di una data piattaforma che ci ha attirati polarizzando la nostra attenzione.
La usiamo ritenendola comunque gratuita, e se i nostri dati vengono ceduti, venduti, utilizzati per profilarci non ci appare culturalmente come una grande perdita perché la nostra sensibilità economica spesso si ferma soltanto a ciò che vediamo direttamente monetizzato.
Quando si parla di alfabetizzazione digitale, sarebbe opportuno anche soffermarsi sullo sviluppo di una autentica cultura della società digitale e di una consapevolezza delle sue implicazioni di ordine sociale, politico, culturale e antropologico: l’estrema leggerezza con cui moltissime persone cedono i propri dati, senza autentica consapevolezza di quanto stiano facendo e di cosa ciò implichi, abbagliati dal mito della gratuità, fa comprendere come la ‘battaglia’ per la regolazione del digitale sia prima di tutto culturale. E solo dopo, giuridica.
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