I media di tutto il mondo si sono divertiti, nei giorni scorsi, a rilanciare lo spot regalato dal Presidente Trump a Tesla in crisi di vendite, spargendo sale sulle ferite di chi per anni aveva decantato le virtù salvifiche della mobilità elettrica ed alimentando un filone dentro cui ben si colloca la surreale discussione nostrana sull’auto dell’onorevole Piccolotti.

La Tesla che da simbolo della velleità di progressisti ben nutriti diventa bandiera del radicalismo conservatore MAGA è uno dei tanti cortocircuiti conseguenti alla ideologizzazione del dibattito sulla transizione energetica, cui hanno contribuito sia i suoi fautori, a partire dalla Commissione Europea, che gli avversari i quali, non sempre in buona fede, vi si oppongono in nome di un principio di pragmatismo industrialista. Un esempio illuminante è la sottovalutazione dell’impatto economico e sociale della riconversione all’elettrico del settore dei trasporti europeo, che ha prestato il fianco all’accusa di aver scatenato una crisi del settore automobilistico che ha invece caratteristiche planetarie e strutturali, allontanandoci dalla vera priorità, che è quella di una politica industriale attiva per affrontare un mercato dominato da imprese cinesi che hanno guadagnato, senza slogan ambientalisti ma con sussidi mirati e capacità tecnologica, una chiara leadership globale.

È necessario guardare alla transizione energetica senza gli occhi dell’ideologia. Immaginiamo che uno scienziato ci presenti le prove inconfutabili dell’inesistenza del cambiamento climatico: avremmo sprecato tempo e risorse per risolvere un problema che non c’è. Gli effetti sarebbero certo profondi: tornerebbe di attualità il carbone, il combustibile meno costoso e più diffuso. I paesi produttori non dovrebbero più temere una contrazione strutturale della domanda mondiale gas e petrolio. Ma cosa cambierebbe per i paesi che non hanno risorse fossili nazionali, fra i quali Europa e Cina? Probabilmente poco. Il problema del costo dell’energia in Europa ha radici profonde che poco hanno a che fare con le politiche climatiche. Chi avesse voglia di fare un po’ di archeologia, può divertirsi a cercare dichiarazioni di chi nei primi anni 2000 lamentava i costi eccessivi dell’energia in Italia con toni molto simili agli attuali, ben prima che gli ideologhi di Bruxelles si mettessero in testa di distruggere l’economia con il loro estremismo green.

Il tema, ovviamente, riguardava il mix di combustibili (molto gas di importazione, nessun nucleare e poco carbone) utilizzato per la produzione elettrica, molti anni prima dell’onda dei sussidi alle rinnovabili. E ampliando il quadro, all’allargamento della forbice di competitività fra USA e Europa dà una spinta fondamentale il gas non convenzionale di cui gli americani hanno beneficiato nell’ultimo quindicennio. C’è largo consenso accademico sul fatto che le politiche europee sul clima, benché spesso accompagnate da sussidi mal disegnati quali il famigerato conto energia italiano, abbiano avuto un impatto modesto sulla competitività industriale. Le grandi imprese energivore, infatti, sono state protette con meccanismi di sostegno (quali il “carbon leakage” che copre i costi di acquisto dei diritti di emissione della CO2 per le industrie) o con schemi specifici di supporto introdotti dai governi con la benevola (e opportuna) distrazione della Commissione Europea.

Se si uscisse dagli slogan e si guardasse nel merito, ci renderemmo conto che, per chi non ha risorse fossili come noi, ridurre o quantomeno diversificare le dipendenze energetiche e industriali è una priorità esiziale e che per farlo vanno adottate, senza illusioni ma con feroce pragmatismo, le tecnologie meno costose. Oggi le rinnovabili rappresentano la risorsa energetica più accessibile ed economica. L’enorme allargamento del gap di costo dell’elettricità fra Italia e Spagna che si è registrato negli ultimi tempi è essenzialmente legato al fatto che gli spagnoli hanno investito moltissimo in rinnovabili e lo hanno fatto a costi molto inferiori nostri, in parte per ragioni fisiologiche (maggiore disponibilità di territorio in un paese meno popolato) ma anche per alcune patologie del nostro sistema autorizzativo e regolatorio. Del resto, una conferma ancora più chiara viene dalla Cina, paese che non può essere certamente tacciato di estremismo ambientalista, dove viene installata più del 40 per cento della capacità fotovoltaica globale.

Dare priorità assoluta alle rinnovabili non significa escludere dal quadro le altre fonti, se non altro per le crescenti difficoltà di realizzazione delle centrali green, non solo in Italia, per un tema di utilizzo del suolo. Il nucleare non è un’arma da brandire contro l’integralismo rinnovabilista. L’energia nucleare è presente nel mix in molti paesi più o meno sviluppati e fornisce energia a miliardi di persone. Bene ha fatto il Governo italiano a porsi il problema di tornare a lavorare su una fonte pulita che garantisce una produzione prevedibile e sicura. Ma, pur immaginando che si riesca a trovare il consenso necessario (diverse indagini dimostrano un atteggiamento positivo da parte dei giovani con maggiore sensibilità ambientale), l’esperienza di tutti i paesi occidentali mostra tempi di realizzazione superiori ai 10-15 anni ed enormi sforamenti di budget che hanno portato i costi dell’elettricità nucleare a livelli multipli rispetto a quelli di impianti eolici e fotovoltaici.

Per pensare in modo realistico al rilancio di questa fonte, va capito come ridurre i costi di costruzione ai livelli dei progetti coreani ed emiratini e puntare alle nuove tecnologie in una dimensione per quanto possibile europea, in quanto l’Europa tutta (a cominciare dalla Germania che ha incredibilmente deciso di spegnere tutte le sue centrali nel pieno della crisi energetica) ha necessità di puntare su questa fonte. Criticare l’impostazione ideologica di un certo ambientalismo può essere sano fintanto che non diventa un alibi per non affrontare i nostri veri fattori di fragilità. Il vero dramma del tormentone Tesla è che non avrebbe potuto prendere spunto da un’auto elettrica europea.

Simone Mori

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