Una scritta sul muro “Io ci sono riuscito, voi non ci riuscirete”, lasciata interrotta, poi completata dai suoi compagni, poi la testa nel sacchetto di plastica colmo del gas del fornelletto da cucina. Così se ne è andato, dopo esser stato “curato” con il codice Rocco del ventennio, nel carcere di Rebibbia L., di cui si ricorderà che doveva scontare ancora “solo” sette anni e che era un malato psichico. Entrerà nella statistica dell’anno come uno dei 32 morti suicidi in carcere del 2021. La pratica sarà archiviata così. E c’è la speranza, viste le tante sollecitazioni di tanti soggetti del “riformismo carcerario”, da Antigone fin all’ordine degli avvocati del Lazio e agli stessi agenti di polizia penitenziaria, oltre che ai detenuti, che la ministra Marta Cartabia intervenga a mettere un po’ di ordine nella situazione carceraria, dal sovraffollamento alle carenze sanitarie. Ma anche all’insensatezza del ricorso alla detenzione per tossicodipendenti e malati psichici.

La Guardasigilli ha da tempo sollecitato al Dap una relazione sullo stato delle carceri italiane, soprattutto dopo che sono venuti alla luce i gravissimi episodi di violenza sui detenuti di S.Maria Capua Vetere e di altri istitituti. Ma si aprono due questioni. La prima l’abbiamo sollevata dal giorno in cui si è reso palese il fatto che la ministra non intendesse avviare un rinnovamento del vertice del Dap. Lasciare una dirigenza composta da ex pm “antimafia” è una scelta politica, perché significa privilegiare la cultura della sicurezza nelle carceri come prioritaria rispetto a programmi riformatori che mettano al centro la persona del detenuto e il percorso individuale che porti al suo reinserimento. Significa continuare a “curare” con il codice Rocco del ventennio fascista, invece che con la riforma del 1975 e con la legge Gozzini.

Il secondo problema è quello di capire se anche un blando e generico “riformismo carcerario” abbia la forza di un bisturi, o la potenza di un’assoluzione in chiesa, per eliminare dal mondo della pena la privazione della libertà come unica soluzione, come fu un tempo per la pena di morte o le punizioni corporali. Non risolvevano, con la loro violenza, i sistemi medievali, non risolve oggi quella privazione d’ossigeno che è la cattività. Quando lo strappo con il patto sociale è avviato, solo una paziente ricucitura può ricomporre la persona, rimettere insieme la mano che ha colpito, sparato, ucciso, con il resto del corpo cui il carcere ha nel frattempo sottratto la coscienza del tempo e dello spazio.
In fondo la scelta di L., e dei tanti che prima di lui -torna alla memoria Gabriele Cagliari– si sono sottratti alla mortificazione del corpo e della personalità con il suicidio, è un gesto rivoluzionario.

Perché togliersi la vita in carcere non è la stessa cosa che farlo all’aria aperta della libertà. Non c’è bisogno di scomodare (ma è bene non dimenticarlo) i discorsi di Montesquieu e di tutto l’illuminismo settecentesco, fino al Novecento di Foucault per ricordare la violenza della pena, prima ancora della violenza del carcere. Per non dimenticare mai che mettere la persona in cattività vuol dire avere la presunzione di poter disporre del suo corpo e della sua mente. L’esigenza è la stessa che ispira il ricorso alla pena di morte o all’ergastolo: mortificare il corpo, asservire la persona. La fuga nella follia, il disturbo psichico che coglie una percentuale altissima di prigionieri, è una forma di sopravvivenza, di straniamento da una situazione assurda e insensata. Che andrebbe osservata e “trattata” in luoghi diversi, secondo le indicazioni di Basaglia, oltre che di Gozzini e di quei pochi direttori del Dap del passato e dei tanti giudici di sorveglianza, di ieri e di oggi, che antepongono la vita alla sicurezza.

Il “riformismo carcerario” degli anni Settanta del Novecento aveva segnato una vera inversione di rotta rispetto al concetto di certezza del diritto come certezza della pena e quindi certezza del carcere. Prima di tutto con l’introduzione delle pene alternative e la dimostrazione di che balsamo sia l’abbattimento delle mura della prigionia, rispetto alle recidive dei reati come rispetto alla salute fisica e mentale del condannato. E poi con il trattamento individuale del detenuto, con lo studio, i corsi di formazione professionale e il lavoro come medicine che racchiudono in sé la magia della speranza nel futuro.

La ricomposizione della persona, la forza di riempire spazi e luoghi, piuttosto che subire quel furto di tempo e di libertà che è il carcere quando diventa puro contenitore di disagi, di trasgressioni. “Sorvegliare e punire”, ha scritto Michel Foucault quarant’anni fa, forse sperando che i movimenti degli anni Settanta avrebbero portato a qualche ricucitura degli strappi e quindi a maggiore libertà “dal” carcere, più che “nel” carcere. Qualche secolo fa anche persone di specchiata vita accettarono che esistesse la schiavitù, e molti non si scandalizzarono per la pena capitale. Cose che oggi non sarebbero accettate dai più. Il fatto di buttare persone in un buco nero a vegetare, e riempirle di psicofarmaci perché sopravvivano, non è molto diverso dal cancellarle come persone (quindi ridurle alla schiavitù della follia) o ucciderle, quindi condannarle a morte.

Saprà la ministra Cartabia fare un buon uso del proprio sincero “riformismo carcerario”? Noi speriamo di sì. Ma ha bisogno di avere vicino a sé le persone giuste (richiami dalla pensione uno come l’ex direttore di San Vittore Luigi Pagano, per esempio), ha bisogno di esplicitare che cosa vuol dire per lei “sicurezza” (vuol dire rinchiudere o ricucire?), ha bisogno di fantasia e di un piccone per cominciare a rompere qualche muro. Ne avrà la forza? E soprattutto: glielo lasceranno fare?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.