Nemesi della storia: ieri Craxi è tornato all’hotel Raphael. E ha ricevuto le monetine ringraziando, mettendole in buon ordine una dopo l’altra. Bobo Craxi, il secondogenito di Bettino, ha scelto la terrazza di Largo Febo a Roma per presentare il suo libro Gauche Caviar, un irriverente manuale di sopravvivenza politica scritto a quattro mani con Fulvio Abbate.

Le copie si vendono, gli spiccioli finiscono nel portamonete dell’editore, Baldini+Castoldi. Due compagni di strada, Craxi e Abbate, un socialista e un comunista, amici nella vita e coautori di una inedita guida attraverso i percorsi bizantini e tortuosi con cui si forma, a sinistra, la nuova classe dirigente. Davanti a un centinaio di curiosi la strana coppia è andata in scena con un duetto capace di far sorridere e anche di mettere i brividi. Quelli della constatazione: tanto appaiono lontani e irrimediabilmente persi i giorni della Prima Repubblica che su questi ciottoli hanno visto consumare, con quella pioggia di monetine, il dramma di un suicidio collettivo. Della consegna a mani alzate concessa all’antipolitica. Ed ecco che il dialogo tra Abbate e Craxi si dipana tra riflessioni acute, citazioni colte o semicolte e ricordi personali.

«Mi sembra di ricordare, correggimi se sbaglio, che il nome di Proudhon lo pronunciò tuo papa Bettino, per ridare un volto nuovo, laico e libertario, simile a uno smiley, al Partito Socialista Italiano, subito dopo il congresso che l’aveva incoronato segretario. Peccato che non ne ricordi più esattamente i dettagli… prova allora a ripetermi come andarono esattamente i fatti», chiede Abbate all’amico. E lì Craxi può rispondergli, nel giorno che celebra i cento anni dalla nascita di Enrico Berlinguer, che suo padre scriveva di Proudhon contro Marx – indirizzandosi all’allora segretario di Botteghe Oscure – per contendere all’egemonia culturale del Pci quel ruolo arrogante, supponente, di matrice fondativa imperante a sinistra. Tutto opinabile, ma parte di uno scambio appassionato di idee, di una battaglia che ben prima di essere esercizio di potere era confronto tra persone, uomini e donne dell’una o dell’altra fede, coerenti, consistenti, forti di prìncipi e di senso di appartenenza. Ma Gauche Caviar non è uno specchietto retrovisore, è lo specchietto della cipria.

Vuol essere, par di capire, la chiave tascabile per interpretare il presente senza rimpiangere il passato. Dal palco, Bobo lo riassume così: «Abbiamo scritto un libro che narra la fine del secolo ideologico e ne supera lo choc della fine delle utopie rispettive, utilizzando l’ironia come catarsi simbolica e come capacità di autoanalisi. Pur sapendo che quello in cui abbiamo creduto è calata la scure del tempo, il tragico destino della storia”. E quanto alla gauche caviar, alla sinistra che ormai presidia i fortilizi della Ztl, i centri storici delle grandi città, il ceto abbiente più che quello medio, ecco su cosa convergono i coautori: si tratta di un tradimento, di un paradosso tutto da sanare. Di un allontanamento che può costare caro. “Mettiamo alla berlina i tic di certa sinistra”, chiosa Craxi che guarda ad Abbate: “Il feticismo ce lo ha messo lui”.

I simboli, gli oggetti, le metafore percorrono l’intero testo. Che è un quaderno, un notes più che un libro. Sfogliandolo, viene voglia di aggiungere qualche pagina. A partire dai luoghi: guardandosi intorno, c’è più caviale che sinistra, in questa piazza che fu palcoscenico del sipario non per Bettino Craxi ma per cinquanta anni di storia. C’è il dehors di un ristorante che si è inglobato quasi tutto, e per meno di diciannove euro non serve da bere. L’hotel Raphael, dove Craxi aveva preso un appartamento come residenza romana, ha scalato le classi ed è diventato un 5 Stelle L, la massima categoria. Trent’anni fa era più modesto, perfino sobrio, ma c’era il via vai dei ministri socialisti, dei grandi manager pubblici e privati che andavano a trovarlo.

Adesso il via vai è di corpulenti turisti che parlano solo inglese, tedesco, sempre più anche cinese. Fulvio Abbate ha appeso una bandiera rossa, in piazza. Ci sono i simboli socialisti del passato che un’americana si ferma a fotografare: “So pitoresque!”. Ma che ne sanno, loro, di questo florilegio di allegorie, di questo proscenio allora infangato dalla bile livorosa dei manifestanti, quel 30 aprile ’93. Che ne sanno di come una parte della sinistra ha rinnegato se stessa e dato le chiavi a una parte della magistratura per completare il lavoro. Oggi sarebbe tutto dimenticato, se non ci fosse la voce di Bobo, e quello sguardo fisso sul selciato, a ricordare.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.