Sto leggendo – ormai sono arrivato alla fine – il saggio di Filippo Facci 30 Aprile 1993 (Marsilio), nel quale si raccontano gli eventi che precedettero e seguirono il giorno in cui, uscendo dall’Hotel Raphael, Bettino Craxi, allora ex segretario del Psi, fu sottoposto a una durissima contestazione, con lancio di monete, sampietrini e ogni tipo di oggetto come non era mai avvenuto nella storia della Repubblica.

Non è il solo libro uscito di recente che ha rammentato quel fatto che caratterizzò il 1993, l’anno in cui “finì la politica”. Ho letto e apprezzato, nei mesi scorsi, i saggi di Fabio Martini e di Mattia Feltri. Ma il libro di Facci – forse perché è il più recente – mi ha impressionato in modo particolare per la minuziosa descrizione di tanti episodi connessi a quell’evento in ogni parte del Paese, come reazione a un libero voto della Camera dei Deputati che, il 29 aprile, aveva respinto, con una solida maggioranza, ben 4 su 6 autorizzazioni a procedere per l’allora segretario del Psi su richiesta della Procura di Milano, nell’inchiesta a cui era stato dato il nome di “Mani pulite”. A leggere delle ricostruzioni tanto puntuali trova sempre elementi prima ignorati, anche chi – come il sottoscritto – ha vissuto quella fase della vita politica italiana molto da vicino. Ma su quel periodo mi ero fatto delle opinioni da tempo e mi ero reso conto di taluni errori di analisi che avevo compiuto, aprendo completamente gli occhi su di un’operazione golpista, contrabbandata come una rivoluzione civile.

Del resto nei trent’anni trascorsi da allora ho avuto tante occasioni di ravvedermi e di passare dalla parte giusta. Ma il saggio di Facci ha evocato un clima di fanatismo, da “pensiero unico”, di giudizi inappellabili, di ragioni indiscutibili che contraddistinsero quegli anni e che trasformarono Bettino Craxi nell’ uomo “da bruciare”. Non era la prima volta che l’opinione pubblica pretendeva un giudizio sommario. Anni prima, nel 1976, quando, a seguito di una campagna giornalistica, scoppiò il caso Lockheed, sulla graticola era finita la Dc. Anche allora veniva invocato il giudizio della storia: i ministri indagati e sottoposti alla autorizzazione a procedere erano colpevoli perché democristiani. E la Dc doveva pagare per il male fatto agli italiani, per espiare una sorta di “peccato originale”. Aldo Moro ebbe il coraggio di alzarsi alla Camera ed affermare che la Dc non si sarebbe fatta processare nelle piazze. In quel caso, Craxi divenuto segretario da pochi mesi, dopo la riunione del Midas, non si prestò a questo autodafé e i socialisti alla Camera differenziarono il voto per ciascun caso.

Forse c’era anche un calcolo politico. Ma Craxi non si lasciò coinvolgere, nonostante che tra la base socialista serpeggiasse un desiderio di vendetta per la recente sconfitta elettorale, attribuita alle malefiche frequentazioni di centro sinistra. Craxi andò in giro per le federazioni a spiegare la posizione del Partito. Ricordo ancora quando venne a Bologna; per strada, aveva reagito a calci nel sedere conto un passante che lo aveva offeso (Facci ricorda due sganassoni che Craxi sferrò, a Milano dopo l’affronto di Roma, a due ragazzotti che inseguivano l’auto sulla quale viaggiava coprendolo di insulti). Allora, la plebe ebbe una testa mozzata. Il presidente della Repubblica, Giovanni Leone (anni dopo i suoi accusatori ammisero che non era coinvolto nel giro di tangenti) fu costretto a dimettersi. Il Pci pose questa precisa condizione alla Dc per proseguire nell’esperienza della “solidarietà nazionale”. Ai tempi di “Antelope Kobbler” (il nome in codice dato al corrotto che restò sempre ignoto) l’Italia era ancora un Paese civile, i partiti erano forti. Nel 1993 Craxi si trovò a combattere da solo.

Oggi, chi legge – in buona fede – il discorso che il leader socialista pronunciò alla Camera il 29 aprile non può non riconoscerne l’onestà e il rigore. Un discorso che passerà alla storia, allora sembrò una provocazione, un atto di arroganza, un’evasione dalle proprie responsabilità chiamando in causa altre forze politiche, come gli ex comunisti, autoproclamatisi di specchiata onestà, quando era assolutamente evidente che il sistema delle tangenti o comunque dei finanziamenti illeciti coinvolgeva, più o meno, tutti i partiti. Il giro delle “mazzette” era un soggetto ricorrente nella commedia all’italiana; gli spettatori al cinema ci ridevano sopra. Bastava guardarsi attorno, fare un po’ di conti sulle spese dei partiti durante le campagne elettorali per accorgersi che i contributi degli iscritti e il finanziamento pubblico non potevano bastare. I bilanci dei partiti erano depositati e pubblici. Ma il punto non è questo. A leggere il libro di Facci è tornata a perseguitarmi una domanda: come ho potuto, io stesso, essere coinvolto – sia pure conservando molti dubbi – da quel clima di caccia alle streghe? Quando Giorgio Benvenuto fu eletto segretario del Psi nel febbraio del 1993 mi chiese di far parte della sua segreteria.

In Cgil io avevo dei problemi; ora riconosco che era colpa mia, perché non si può essere dirigente di una organizzazione e non condividerne pubblicamente la linea. Da tempo, ho ammesso che la Cgil fu assai tollerante con me. Però, la mia posizione era imbarazzante e scomoda. Pertanto, quella proposta (che si concretizzò tra fine marzo e inizio di aprile) mi sembrò una via d’uscita onorevole. Ricordo ancora che, alla notizia della mia elezione, fui ricoperto di telegrammi di congratulazioni, come non mi era mai capitato in precedenza: ciò a dimostrazione che il crollo del partito non era ancora avvenuto del tutto come sarebbe, poi, capitato in poche settimane. Benvenuto (Gino Giugni venne eletto presidente) rappresentava il “nuovo”, il socialista onesto, l’ex sindacalista che tentava di salvare un glorioso partito dal vecchio gruppo dirigente; tanto che il massimo di consenso il nuovo corso l’ottenne con la decisione detta “fuori i corrotti” in applicazione della quale gli inquisiti erano sospesi dagli organi dirigenti.

Ricordo ancora la folta selva di giornalisti e telecamere che attendeva l’esito di quella discussione. Giorgio Benvenuto aveva formato un gruppo di “seconde linee” (io e soprattutto Enzo Mattina eravamo i suoi più stretti collaboratori). Ad ogni riunione veniva a mancare qualcuno perché raggiunto da un avviso di garanzia. Ma l’aspetto più grave era la mancanza di risorse e l’ammontare dei debiti, riguardanti anche spese banali come l’affitto, le bollette e i fornitori. Mi resi conto che, prima della disgrazia, il partito (probabilmente tutti) non era sollecitato ad onorare le scadenze, gli impegni e quant’altro. Quando la situazione stava precipitando tutti si presentarono a battere cassa e a pretendere gli arretrati. In via del Corso il personale non veniva pagato, così anche i dirigenti. Io mi insediai nell’ufficio che era appartenuto a Gennaro Acquaviva. Lo studio di Craxi fu chiuso come la stanza della prima moglie Rebecca. Benvenuto non volle mai prenderne possesso. Ricordo che, a quel piano, c’era uno splendido giardino pensile. Giorgio non se la sentì di addossarsi la gestione della situazione finanziaria e non volle mai servirsi delle risorse “imboscate”.

È comprensibile che tra i due gruppi (il “nuovo” che avanza e il “vecchio” sotto scacco) ci fossero degli screzi e che il nucleo storico (di ex ministri e parlamentari di lungo corso) si sentisse ingiustamente emarginato da quei parvenu; mentre noi non esitavamo ad avvalerci delle loro difficoltà per legittimarci. È gratificante svolgere il ruolo dei “buoni” quando sono identificati i “cattivi”. Il partito era frastornato e ci seguiva con fiducia, anche perché avevano l’appoggio dei media nella misura in cui servivamo a combattere i craxiani. A un certo punto furono fatte circolare le notizie sulle “spese pazze” della precedente gestione del Partito; i conti in rosso persuasero Giorgio Benvenuto a ritenere insostenibile la situazione e a uscire di scena, fondando un nuovo movimento col nome di Rinascita socialista. Lo seguii fuori dal partito senza aderire alla nuova formazione. Per fortuna tutto era precipitato così in fretta che mi accorsi di essere ancora dipendente della Cgil. Mi rifiutai di fare il parroco dove ero stato cardinale e chiesi di lavorare nella casa editrice Ediesse occupandomi delle sue pubblicazioni. Poi la vita mi aprì fortunatamente altre opportunità. Ciò che rimaneva del partito si affidò a Ottaviano Del Turco e al suo prestigio di dirigente sindacale. Ma quanto successe in seguito è noto.

Mi sono domandato più volte se in quell’occasione io non mi fossi trovato quasi per caso dalla parte sbagliata. A mia giustificazione posso addurre delle referenze: tante volte ho deciso di sostenere posizioni scomode con grande determinazione. Anni dopo le mie convinzioni mi portarono – come gran parte dell’elettorato socialista e tanti ex dirigenti – vicino a Forza Italia e a essere eletto, nel 2008, nelle liste del Pdl, mantenendo, tuttavia, buoni rapporti anche con quei socialisti che restarono nell’area di sinistra (sono onorato della mia collaborazione a Mondoperaio). Se mi è permesso di rendere noti gli esiti della mia ultradecennale autoanalisi, credo di poter affermare che, in quei pochi mesi e in quelli immediatamente successivi, esplose un clima di imbarbarimento a cui era arduo sottrarsi. Un transfert collettivo che costituisce un monito perenne di come è facile cadere vittime delle suggestioni che nella storia hanno portato l’opinione pubblica a confondere i peggiori misfatti con il “fare giustizia”. I paragoni sono sempre rischiosi; ma non è un azzardo – mutatis mutandis – parlare di Craxi come di un Dreyfus italiano. Certo, Bettino non finì all’Isola del Diavolo; ma non venne neppure riabilitato da quelle istituzioni che aveva servito con dignità e onore. Gli fu rifiutato persino un salvacondotto per gravi motivi di salute. Soprattutto non trovò un Emile Zola che scrivesse, a sua difesa, il “j’accuse”.