Insultato per il colore della pelle, mortificato e trattato da schiavo, addirittura minacciato di morte. E tutto questo perché? Per aver chiesto al titolare dell’officina, nella quale aveva lavorato per due anni in nero e a soli 15 euro al giorno, di avere una paga decente e un contratto. Protagonista di questa storia di discriminazione e intolleranza è Didier (nome di fantasia), 34enne ivoriano arrivato in Italia nel 2017 e attualmente ospite di un centro di accoglienza del Casertano.

Per due anni l’uomo, sbarcato nel nostro Paese dopo aver attraversato il Mediterraneo a bordo di un barcone partito dalla Libia, ha lavorato in un’officina napoletana. Non solo come meccanico, ma anche come elettrauto e gommista. La paga giornaliera? 15 euro, non un centesimo in più. Contributi previdenziali, assicurazione e ferie? Zero. Un contratto? Nemmeno a parlarne. Tanto è vero che, quando Didier si è deciso a chiedere una retribuzione decorosa e un accordo che sancisse i suoi diritti oltre che i suoi doveri, il titolare dell’officina l’ha licenziato e minacciato: «Sei un negro, rimarrai schiavo a vita. Devi fare solo il negro nella tua vita come lo fate tutti quanti, perciò siete negri di merda». E poi varie minacce: «Se ti acchiappo ti mando all’ospedale», «Attento perché ti taglio la testa» e altre parole quanto mai cariche di odio.

Ed è questo che ha spinto Didier a denunciare la vicenda all’autorità giudiziaria. A chi gli chiede come si sia sentito nell’ascoltare quella sequela interminabile di insulti e di minacce che il titolare dell’officina gli ha vomitato addosso prima dal vivo e poi su WhatsApp, il 34enne risponde senza esitazione: «Non capisco perché il mio ex datore di lavoro non mi abbia detto subito che non mi avrebbe messo sotto contratto. Eppure gli ho dimostrato di essere bravo e lui mi chiamava sempre per farmi lavorare». Dopodiché l’attenzione si sposta sugli insulti di matrice razzista: «Non posso essere trattato così – prosegue Didier – Io sono un uomo come il mio ex datore di lavoro. Il nostro sangue è lo stesso, cambia soltanto il colore della pelle. Non è giusto che mi minacci di morte. Vengo da un Paese dilaniato dalla guerra. In Italia credevo di trovare una situazione tranquilla e non una persona che mi vuole fare del male».

Al fianco di Didier c’è Hilarry Sedu, l’avvocato napoletano ma di origini nigeriane che a febbraio di quest’anno è stato protagonista di un altro spiacevole episodio: nel Tribunale per i minorenni di Napoli, un giudice onorario, non credendo che Sedu potesse essere un legale, gli ha chiesto di esibire il tesserino e se fosse laureato. «Didier non ha fatto altro che chiedere legalità e una giusta retribuzione – sottolinea l’avvocato – È inammissibile che qualcuno si comporti come il suo ex datore di lavoro, pronunciando parole dalla schifosa matrice razzista». Secondo Sedu «la vicenda dimostra come una parte degli italiani debba essere ancora educata all’inclusione, alla tolleranza e alla pacifica convivenza con le persone di colore. Siamo nel 2021, ma ancora troppi immigrati non hanno voce».

In effetti è proprio così. In Campania sono circa 2mila i richiedenti asilo ospitati nelle 51 strutture attive sul territorio. Si tratta di persone che hanno subìto o rischiano di subire persecuzioni per motivi legati alla razza, alla religione, all’etnia o all’opinione politica nel loro Paese di origine. E che, di conseguenza, non esitano ad attraversare il Mediterraneo nella speranza di arrivare in Italia e di trovarvi protezione, diritti. Invece, sempre più spesso, devono fare i conti con razzismo, intolleranza e con una sub-cultura che porta molti grandi e piccoli imprenditori a trattare i lavoratori come risorse da sfruttare e non come persone con dignità e diritti. «Il comportamento dell’ex datore di lavoro di Didier – conclude l’avvocato Sedu – offende non solo chi ha la pelle nera, ma anche chi legittimamente chiede una giusta retribuzione e un lavoro legale. Il razzismo non si può più sottovalutare: è la mina che rischia di far saltare definitivamente la nostra democrazia».