Dopo oltre un anno di pandemia, mentre si avvicina una parvenza di ritorno alla “normalità”, siamo migliori di “prima”? Abbiamo davvero e finalmente compreso che soltanto insieme si esce dalla pandemia e da tutti i problemi sociali, etici, politici, economici? Abbiamo capito – come ripete Papa Francesco – che il “tutto” è superiore alle singole “parti”?

Ebbene, direi che dobbiamo fare ancora un po’ di strada. Guardo le immagini dei migranti in mare, un neonato aggrappato al salvagente, persone che soffrono e muoiono in una maniera disperata e disumana. Le leggi del mare stravolte: qualcuno soccorre, qualcun altro prende di mira i gommoni e spara. Migranti o pescatori, oggi vediamo che tutti sono in balìa di una guerra non dichiarata e senza regole: la guerra della non-fratellanza universale. Allora vuol dire che non abbiamo compreso la lezione della pandemia, ossia che o ci salviamo tutti assieme o non ci salviamo. Abbiamo un disperato bisogno di “fraternità” e ci aggrappiamo ai nostri “aperitivi” o alle “cene all’aperto” come quel neonato disperatamente aggrappato al gommone-giocattolo, per fortuna salvato da un efficace e pietoso soccorritore che non ha voltato la testa dall’altra parte. In quel bambino ha visto un fratello. E i fratelli non si scelgono, si amano.

Invece nelle nostre strade e piazze, in Italia, in Europa, un po’ ovunque nel mondo, voltiamo lo sguardo dall’altra parte e costruiamo muri: di pietra, di razzi gettati sui nemici, o – peggio ancora – muri di disgusto negando pietà, solidarietà, empatia. Tanti promettono: interverremo, faremo, risolveremo, attraverso accordi politici ed economici. Sicuramente servono, anzi sono necessari. Ma prima è indispensabile la fraternità solidale. Non deve ripetersi la tragedia del mare, le troppe tragedie del mare. La nostra umanità è disperatamente in crisi e non sarà una cena in più o un aperitivo ai Navigli, a Trastevere, sul lungomare di Napoli o Palermo, a risolvere il senso della vita, a darci quel senso di vera normalità che desideriamo.

La straordinaria parabola del Samaritano va ancora una volta citata e meditata. Il sacerdote e il levita vedono l’uomo mezzo morto al bordo della strada e vanno via: è un disturbo, magari è un poco-di-buono, sicuramente si è meritato il suo destino. Eppure il sacerdote e il levita erano uomini come noi, come me che sono prete cattolico e come te, uomo o donna che stai leggendo. Avevano sicuramente degli affetti, delle persone care, si saranno presi cura dei loro parenti e amici malati o incidentati. Qui tirano dritto. È un uomo lì ai bordi, chi se ne importa di lui! È un migrante, lasciamolo lì; viene a disturbarci, a turbare la nostra pace, a rubarci il lavoro e già non ne abbiamo per tutti! Abbiamo vissuto per oltre un anno – e lo viviamo ancora – un problema “globale”: il virus non ha frontiere, non fa distinzione tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del mondo. Si diffonde e basta, se trova le condizioni adatte. Così la risposta può essere solo collettiva e comune: non serve chiudere le frontiere, serve solidarietà universale, vaccini per tutti, distanziamento e mascherine. In una parola: serve solidarietà. Non è una caratteristica del volontariato o del mondo cattolico: la solidarietà è un valore universale, racchiuso nel rendersi conto di quanto sta accadendo all’altro. E l’altro è “mio fratello”, non uno straniero, non un estraneo, non un nemico.

Certo, siamo di fronte a fenomeni complessi. La pandemia prima di tutto, con molteplici cause, non tutte spiegate, non tutte chiarite. Con la medicina e la scienza che arrancano e faticano a dare risposte. Le migrazioni sono anche loro un fenomeno complesso, con molteplici cause, su cui si inseriscono i trafficanti di esseri umani, pronti a sfruttare la disperazione per “trenta denari”, vendendo indifferentemente bambini, donne, uomini, alla mercé del mare.
Che fare? Chiudiamo gli occhi o li apriamo meglio? Neghiamo tutto o ci sforziamo di comprendere e rendere migliore il mondo? Le radici dei “negazionismi” sono racchiuse qui: non vogliamo guardare, non vogliamo cogliere la complessità e preferiamo una spiegazione semplificata: l’uomo sul ciglio della strada della parabola sarà un poco-di-buono. I migranti? Colpevoli di essere poveri, anche i bambini sono colpevoli, di essere nati da genitori poveri.
Non può essere così. Non possiamo andare avanti così. L’Europa nel suo complesso – con i suoi due “polmoni”, Est ed Ovest – non può ritardare una soluzione a questo problema (anche ad altri, ma pensiamo a questo!). Non è solo una questione di essere all’altezza di una tradizione cristiana, culturale, umanista e illuminista di grande profondità. È una questione di umanità, che va di pari passo con la civiltà.

Ma vorrei spingermi oltre. Stiamo condannando a morte decine e centinaia, di donne, bambini, uomini, colpevoli del peggiore reato ai nostri occhi, quel reato non contemplato da alcun codice: il reato di povertà e disperazione. Ci siamo scandalizzati, in passato, quando i nostri connazionali erano sfruttati e maltrattati nei paesi in cui erano emigrati. Alziamo la voce a difendere – giustamente – i nostri concittadini quando si trovano in difficoltà all’estero. I migranti no; non sono esseri umani? Sono numeri fastidiosi? Restino lì, alla mercé del loro destino e se muoiono, la nostra coscienza fa finta di non sapere e non vedere. E, con una coscienza ispessita, li accusiamo di essere clandestini o anche terroristi. È una visione disumana della nostra presunta civiltà e anche della politica e di un sistema sociale ed economico da ripensare alle radici.

Non possiamo andare avanti così. Semplicemente non possiamo. Se non ce ne occupiamo, andiamo incontro alla disgregazione delle nostre società, apparentemente perfette, tra “apericene” e vacanze al mare o in montagna. Dobbiamo rendere attuale qui, ora, l’utopia del Vangelo, quella del samaritano che non era un credente ebreo ma che Gesù pone come esemplare di discepolanza. E, il Vangelo ci dice che saremo giudicati sull’amore anche dello straniero. Gesù sta dalla parte del samaritano non da quella del prete. Ed è stato ucciso per questo. C’è, in effetti, un nuovo clericalismo, quello di pensare a se stessi, difendere se stessi e i propri steccati. Sulla croce di Gesù è stato crocifisso ogni egocentrismo e ha trionfato l’amore per gli altri. Da quella croce sgorga un grido: siete tutti fratelli, amatevi gli uni gli altri. E – potremmo aggiungere – avete sufficiente intelligenza per risolvere i problemi che sorgono tra voi! Non dimentichiamo che siamo figli dell’unica grande famiglia umana.

Questa coscienza è quella che la pandemia ci sta insegnando. Come non si può dividere il clima, così pure non si possono dividere i popoli. Ognuno di noi è figlio/figlia di Dio e tra di noi siamo fratelli e sorelle, tutti collegati. La nostra unità è più forte dell’individuo. Ce l’hanno detto diversi decenni fa: “Un battito di ali in Brasile provoca un uragano in California”. L’avevamo dimenticato. Il Covid 19 ce lo ha ricordato. Il Noi è più forte, più saldo, più capace di umanità e fraternità del mio io individuale ed egoista.

È certo una verità evangelica. Ma è umanistica, quella segnata dalla triade, fraternità, libertà, uguaglianza. Dobbiamo fare in modo che nessuno e nessuna sia escluso. Anche quando è difficile. Ma nulla è impossibile all’amore. Per il nostro caso basti un esempio: i corridoi umanitari. La Comunità di Sant’Egidio ha avuto il coraggio di realizzarli. Per amore contro ogni rassegnazione. Tutti dobbiamo attivarci: la società civile, le religioni, la Chiesa, i politici, gli intellettuali… è necessario alzare la voce ora, affinché la barbarie abbia fine e l’umanità vinca. Solo questo è davvero importante.