Il carcere lo ha tenuto per troppi anni lontano dalla sua famiglia, dai suoi affetti. A.C. di quella distanza soffre tantissimo. Lo ha capito soprattutto quando è morta sua madre. E’ riuscito a salutarla in ospedale per l’ultima volta quando lei era senza forza e solo le lacrime potevano parlare per lei. Era ormai troppo tardi, sua madre è morta poco dopo. Ha racchiuso in una lettera le emozioni e il dolore di quell’ultimo bacio a sua madre, di quell’ultimo “ti voglio bene” sussurrato nell’orecchio per ringraziare tutto lo staff del carcere per essergli stato vicino in un momento così delicato. Ringrazia con tutto il cuore soprattutto il Magistrato di Sorveglianza per aver accolto il suo grido di dolore e avergli permesso di poter portare il suo ultimo saluto a sua madre. Un diritto per chi è in carcere, che non tutti ottengono.

La lettera è stata recapitata al Riformista da Emanuela Belcuore, garante dei detenuti della provincia di Caserta che spiega che A.C. “è stanco e in grande revisione critica dei suoi reati di dipendenza dal gioco. E’ molto dispiaciuto di aver speso un tempo importante quello privato della libertà e per questo ha curato poco gli affetti familiari purtroppo”. La testimonianza di A.C. ricorda quanto sia doloroso il carcere soprattutto per gli affetti, e quanto sia importante che l’urlo di dolore sia ascoltato e non cada nel vuoto. Questo può fare davvero al differenza nell’unica vita di un uomo, anche se ha sbagliato e sta pagando. Riportiamo di seguito le parole della lettera di A.C.

Quando il dolore invade l’anima. Entro dalla porta con le manette ai polsi e la prima persona che incontro è il dottore perchè mi dice di averla operata “per carità cristiana”. Ho uno scatto: “Ma che sta dicendo?”. Lui mi dice che aveva avvisato che solo con un miracolo ce l’avrebbe fatta perché quando è arrivata già non respirava più da sola. Non mi ero accorto che lei era nel letto alle mie spalle. Mi giro e rimango di sasso. Tutti quei tubi…non me lo aspettavo. Dico al dottore che mia sorella e mio cognato mi avevano detto che sarebbe passata in reparto ma lui mi dice che non è vero.

Mi chiede: “Quanto ti manca? (per finire di scontare la pena, ndr)”. Io rispondo: “Un anno”. E lui mi dice di abbracciarla forte perché non la rivedrò mai più. Lei è nel suo letto che dorme. Chiedo come fare per svegliarla. Lui fa un cenno all’infermiera e, credo, toccando i macchinari, fa in modo che si svegli. Io la chiamo, lei apre gli occhi ma li richiude. Poi mi avvicino di più e la chiamo: “Vecchia fetente, mammina”. Lei riapre gli occhi, li richiude di scatto. Io mi avvicino di più, mi tolgo il cappello e la mascherina. Non potrei ma la guardai ha capito e non mi ha detto niente.

Lei muove il braccio sinistro e in quel momento capisco che lo hanno imbustato per evitare che potesse togliersi i tubi. Io gli dico di non farlo. Non avevo capito che voleva solo farmi segno di avvicinarmi. Io ero impaurito: il tubo alla gola, il tubo al naso, lo squarcio sul petto. Le chiedo se mi ha riconosciuto e lei mi dici con un filo di voce: “Non piangere”. Metto la mia guancia destra sulla sua. Il suo occhio destro non si apre bene ma da lì sgorgano lacrime che si uniscono alle mie sulle guance unite.

Avvicino la bocca al suo orecchio e gli chiedo più volte se mi vuole bene e altre cose che non le avevo mai detto. Lei ha scosso la testa per dirmi che sì, mi voleva bene. Poi con la poca forza che le resta, alza il braccio e me lo appoggia quasi dietro la testa. Io non avevo mai abbracciato in questo modo mia madre, ma in quel momento, ho cercato di prendermi tutte le sue sofferenze e darle tutto il mio amore mentre mi abbracciava. In quel momento mi è passata tutta la vita davanti. Poi, stanca e sofferente, si è addormentata. Mi sono alzato in preda a sentimenti contrastanti: l’amore verso di lei e la rabbia verso chi mi aveva detto solo bugie. Ma poi ho capito mio padre e mia sorella: forse loro si sentivano in colpa per la sofferenza di mia madre.

Voglio andarmene ma mamma si sveglia e mi richiama. Io le bacio la fronte e le guance che continuano ad essere solcate da lacrime. Lei si riaddormenta e in quel momento, anche col cuore straziato, faccio segno all’infermiera di fare in modo che dorma e vado via. Ritornando al carcere sapevo che non l’avrei mai più rivista viva. Poi mamma, anzi mammina, come la chiamavo io, è morta. Questa lettera è il mio ricordo più intenso che ho di lei.

Ringrazio il direttore del carcere e tutto lo staff dell’area educativa e la polizia penitenziaria che hanno condiviso questo dolore con me. Un grazie speciale a colui che mi ha permesso di vivere le ultime emozioni con mia madre: il magistrato di sorveglianza che in silenzio “vede, ascolta e autorizza” al grido di aiuto da dentro le mura.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.