Può un uomo chiuso tra 4 mura da anni avere paura della libertà quando arriva il suo momento? Un concetto che può risultare assurdo, eppure la paura di tornare in libertà è un sentimento che pervade tantissimi detenuti poco prima di uscire dal carcere. Sono tante le persone che quando arriva quel momento non sanno cosa fare, dove andare. È quello che è successo a un detenuto egiziano di 30 anni. A raccontare la vicenda è il suo compagno di cella. Il giovane era solo in Italia, il carcere per lui era l’unico posto dove sapeva di poter stare per certo. Aveva solo un’altra paradossale certezza: “Non ho un euro. Domattina già commetterò un reato perché salirò sull’autobus senza biglietto”. E così quel ragazzo preso da un terribile horror vacui della vita ha preferito farla finita. Non è mai più tornato in libertà fisicamente. Ha avuto paura della libertà. Riportiamo di seguito le parole della lettera a Sbarre di Zucchero del detenuto che racconta il dramma del suo compagno di cella.

Era il mio quarto anno in carcere, il secondo che ero in infermeria (dopo un infarto). All’epoca vivevamo (per modo di dire) in 3 detenuti in una cella. Il carcere si era svuotato velocemente dopo l’indulto del 2006. Il mio dirimpettaio era un ragazzo, giovane 30-35 anni. Egiziano. Mi vergogno ma non mi ricordo più il suo nome. Sono passati troppi anni. Era in infermeria perché si era autoinflitto dei tagli profondissimi al basso addome ed alle braccia con il coperchio di una scatoletta di tonno “elaborata”. Dopo quell’avvenimento gli ‘spesini’ (detenuti addetti alla consegna della spesa in carcere come attività lavorativa, ndr) potevano consegnare il tonno solo su un piatto, dovevano riportare la scatola all’ufficio sopravvitto. Lascio a voi pensare quanto poteva durare il tonno aperto e senza frigo ovviamente.

Era solo in cella sotto osservazione sanitaria speciale. Aveva scontato 5 anni e mezzo di detenzione e quel giorno avrebbe dovuto essere molto felice in quanto sarebbe stato liberato (fine pena) la mattina seguente. Però lo vidi più sottotono del solito. Gli chiesi il perché di questo suo stato d’animo. Per me era incomprensibile. Io avrei fatto salti di gioia, avrei già preparato il famoso sacco nero delle immondizie con le mie robe che avrei voluto portarmi a casa. Lui invece era triste e preoccupato. Mi raccontò che era solo in Italia e che non conosceva nessuno fuori dal carcere. Mi disse: “Non ho un euro. Domattina già commetterò un reato perché salirò sull’autobus senza biglietto. Non so quale autobus prendere. Da chi vado? A chi posso rivolgermi per chiedere aiuto? Dove dormo? Chi mi darà qualcosa da mangiare?”.

Gli scrissi qualche numero telefonico…don Paolo, La Fraternità, una mia zia (anch’io non avevo parenti in Italia). Mi disse: “il mio cellulare era una prova al processo…non ce l’ho più. Ma anche se l’avessi…non ho i soldi per una scheda. Come faccio a telefonare?”. Gli scrissi anche qualche indirizzo dove sicuramente lo avrebbero aiutato. Ero sconvolto da questo dialogo…disperazione pura. Avevo, per la prima volta, toccato con mano la paura di uscire. Inimmaginabile per una persona ‘normale’. Avrei capito col passare degli anni che tanti detenuti avevano questa paura. Paura della libertà! Paura di una vita senza futuro! Paura di tornare a delinquere per necessità! Paura di tornare nell’inferno del carcere! Feci un caffè e, con l’aiuto della scopa, glielo passai dall’altra parte del corridoio. Non abbiamo più parlato. Non sapevo cosa dirgli per fargli coraggio. Poco dopo è passato l’agente a chiudere i blindi. “Buonanotte! Buonanotte!”. Verso le cinque del mattino mi svegliai perché c’erano due rumori insoliti nel corridoio. Non feci in tempo di avvicinarmi allo spioncino che è passato un agente e chiuse tutti gli spioncini della sezione. Sapevamo tutti cosa vuol dire…non dovevamo vedere quello che stava succedendo.

Sono tante le “opzioni” per questa misura. Portano un detenuto “speciale“”(appartenente a le forze dell’ordine p.e.) oppure un collaboratore di giustizia ma più probabile che entrassero in una cella per picchiare un detenuto. Eh sì, “la squadretta” con l’assistente capo sardo che prima di entrare in cella indossava i guanti in pelle nera…Certo, eravamo in infermeria, poteva anche succedere che uno di noi “se ne andasse”. Ma a questa possibilità non volevamo credere. Invece, quando 3 ore dopo aprirono i blindi, abbiamo capito subito. La cella del ragazzo egiziano rimase chiusa. Arrivò il sovrintendente capo che mi fece qualche domanda…Poi mi raccontò che il ragazzo “liberante” si era impiccato. La paura della libertà!

a cura di Rossella Grasso

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