“Ci concentriamo sulla sostenibilità non perché siamo ecologisti, ma perché siamo capitalisti”: così parlò Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, la più grande società di investimento del mondo con un portafoglio di oltre 10mila miliardi di dollari.

È infatti un dato consolidato che le aziende più attente all’ambiente (Enviroment), agli aspetti sociali della propria attività (Social) e ad un corretto e trasparente governo societario (Governance) sono quelle già oggi più redditizie e, in una prospettiva di medio-lungo termine, le uniche capaci di produrre valore per i propri stakeholders.

Il perché è facilmente intuibile: le aziende che affrontano seriamente le problematiche ambientali e sociali e che agiscono in modo trasparente e conforme alle leggi sono meno rischiose e, quindi più attrattive per gli investitori, scontando quindi un costo del capitale più basso. E chi paga meno il denaro, si sa, è più competitivo. La conferma ce la dà, come sempre, il mercato. Gli investimenti finanziari “sostenibili” a livello mondiale sono passati da oltre 13mila miliardi di dollari nel 2012 ad oltre 35mila miliardi di dollari nel 2020, rappresentando oltre il 35% di tutti gli investimenti. E il trend in aumento continua…

Assistiamo inoltre ad una sempre maggiore propensione anche degli investitori retail verso prodotti, attività e aziende sostenibili, specialmente in ambito ecologico. Si veda, ad esempio, il successo ottenuto da Eni con l’emissione dello scorso gennaio di sustainabilitylinked bond (obbligazioni con rendimento legato al raggiungimento di determinati obiettivi di sostenibilità): a fronte di 2 miliardi di obbligazioni offerte, le richieste dei “piccoli” investitori hanno superato i 10 miliardi di euro.

Ecco perché la “finanza sostenibile”, che tiene in considerazione i fattori ESG indirizzando i capitali verso attività e progetti sostenibili, costituisce un potente strumento per lo sviluppo sostenibile. Ma è (sempre) davvero così? Il primo problema che si presenta all’investitore è individuare aziende e progetti realmente sostenibili. Grandi sono infatti sia il rischio di imbattersi in ambientalismi di facciata (“greenwashing”) sia la difficoltà di avere informazioni sufficienti e attendibili su ciò che andiamo a supportare finanziariamente.

È pur vero che ci sono numerose agenzie di rating in materia di ESG, che valutano aziende, progetti e fondi di investimento in base a criteri di sostenibilità, ma è altrettanto vero che gli indici e le metriche di valutazione sono diversi per ogni agenzia. Con esiti (rating) assolutamente divergenti e, quindi poco o punto indicativi e comparabili.

A questa “babele” stanno cercando di porre rimedio le istituzioni, in particolare quelle europee. Nel 2021 è stata pubblicata la proposta di CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) che ha lo scopo di garantire la qualità, l’affidabilità e la comparabilità delle informazioni non finanziarie pubblicate dalle grandi imprese, con particolare riferimento agli impatti delle aziende sulle persone e sull’ambiente. Ancor prima, nel 2018 la Commissione Europea aveva adottato un “Piano d’Azione per la Finanza Sostenibile” con l’obiettivo di orientare i flussi di capitale verso investimenti sostenibili, al fine di realizzare una crescita ecocompatibile ed inclusiva.

All’interno del Piano, il Regolamento 852/2020 ha inteso istituire un sistema di classificazione unitario (“Tassonomia”) delle attività economiche sostenibili, in relazione al contrasto e all’adattamento ai cambiamenti climatici, all’utilizzo dell’acqua e delle risorse marine, all’economia circolare, all’inquinamento e alla biodiversità.

Per quanto questi provvedimenti vadano nella giusta direzione di assicurare un quadro informativo e di indirizzo omogeneo, tuttavia sussistono limiti e criticità che ancora ne impediscono un efficace utilizzo. Basti pensare che, ad esempio, non sono considerati “sostenibili” gli investimenti in riforestazione oppure finalizzati alla riduzione delle emissioni di anidride carbonica in ambito Oil&Gas.

Pur nella consapevolezza che ogni settore produttivo e, talvolta, ogni singolo bene o servizio prodotto, presenta le sue peculiarità rendendo quindi estremamente complesso conciliare l’omogeneità dei criteri con l’eterogeneità degli ambiti di applicazione, è di tutta evidenza che la potenza dello strumento tassonomico, in grado di incentivare o disincentivare le scelte di investimento, se non bene adattato alle realtà produttive, può portare al risultato paradossale di sfavorire investimenti certamente ecosostenibili.

Bisogna quindi che le Istituzioni procedano ad una costante attività di fine tuning al fine di orientare i flussi finanziari verso tutte le forme – e non solo verso alcune – di investimento finalizzate ad uno sviluppo pienamente sostenibile sotto il profilo ESG ma anche sotto quello economico e finanziario. Senza la sostenibilità economica e finanziaria, infatti, qualsiasi progetto – anche il più nobile – è irrimediabilmente destinato al fallimento.

Marco Seracini

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