Siamo disposti a rinunciare alla libertà di scelta per ritrovare un po’ di serenità?
“A cosa devo abbonarmi per essere felice?”, confessioni di un Personal Subscription Coach: come rimettere ordine nei conti mentali
Da circa sei mesi ho iniziato una nuova avventura professionale. Sono un Subscription Optimizer, anche se preferisco definirmi Personal Subscription Coach (PSC). Per i pochissimi che ancora non conoscono questa professione, il PSC è un esperto di abbonamenti digitali che, studiando stile di vita e disponibilità economiche, definisce una “dieta” di abbonamenti che ti renda felice. Sì, rendo le persone felici aiutandole a mettere ordine. No, non è un mestiere che possono fare tutti. È iniziato per gioco. Amici e conoscenti mi chiedevano: “Meglio ChatGPT o Gemini?”, “Netflix o Now?”. Ho capito che la domanda nascondeva un bisogno più profondo: “A cosa devo abbonarmi per essere felice?”.
Troppi abbonamenti digitali
Il vero cambiamento è iniziato un anno fa. Un conoscente mi ha detto: “Non so più cosa ho, cosa pago, cosa guardo”. Non era insoddisfazione per un singolo servizio. Era stanchezza. Così ho iniziato a studiare. Gli esperti la chiamano subscription fatigue. È l’affaticamento cognitivo ed emotivo che emerge dalla gestione di troppi servizi ricorrenti. Non è pigrizia. È il cervello che alza bandiera bianca. Secondo Deloitte, la famiglia americana media sottoscrive quattro servizi di streaming per 69 dollari al mese. Il 47% ritiene di pagare troppo. Il 60% cancellerebbe il servizio preferito se il prezzo aumentasse di soli 5 dollari. Da dove viene questa stanchezza? Ci sono quattro cause.
Ore a scrollare senza trovare nulla
La prima l’aveva intuita Barry Schwartz nel 2004 con The Paradox of Choice. Più opzioni non significano più libertà. Significano ansia, tempo sprecato, rimpianti. Aprite una piattaforma: 10.000 titoli ma non trovate nulla. Passate a un’altra, poi un’altra ancora. Mezz’ora dopo state ancora scrollando. Longo e Baiyere hanno documentato il fenomeno: gli utenti spendono più tempo a cercare cosa vedere che a guardare una serie.
Gli abbonamenti zombie
La seconda causa è più subdola. Uno studio di Einav, Klopack e Mahoney, pubblicato sull’American Economic Review, ha analizzato milioni di transazioni. Molti abbonamenti sopravvivono non perché li usiamo, ma perché ci dimentichiamo di averli. Quando una carta di credito scade, le disdette schizzano verso l’alto: per alcuni servizi si perde oltre il 30% degli abbonati. Sono gli “abbonamenti zombie”: prelevano denaro mese dopo mese, senza che nessuno li usi. L’inattention dei consumatori incrementa i ricavi delle piattaforme dal 14 al 200%. Nella mia pratica, la caccia agli zombie è il primo passo. Chiedo sempre: “Mi mostri l’estratto conto degli ultimi tre mesi”. Le sorprese non mancano mai.
Paywall tra profitto e sopravvivenza
La terza causa riguarda i contenuti un tempo gratuiti. Quando il New York Times introdusse il paywall nel 2011, Cook e Attari studiarono le reazioni dei lettori. La maggioranza rifiutò di pagare: pagare per qualcosa che prima era gratis viene percepito come una sottrazione. Ma se il paywall veniva presentato come necessario alla sopravvivenza, la disponibilità aumentava. Se associato a un obiettivo di profitto, crollava. Le persone contribuiscono alla sopravvivenza. Non finanziano margini aziendali. Per questo, nonostante un piccolo conflitto di interessi, consiglio sempre di abbonarsi al Riformista.
Rimettere ordine nei conti mentali
La quarta causa è cognitiva. Richard Thaler, Nobel 2017, ha descritto come organizziamo le spese in “conti mentali” separati. Gli abbonamenti complicano questa contabilità. Sono intrattenimento o necessità? Spesa fissa o variabile? La confusione genera ansia. Come PSC, il mio lavoro è proprio questo: rimettere ordine nei conti mentali. La subscription fatigue non colpisce tutti allo stesso modo. I giovani mostrano tassi di disdetta più alti — circa il 50% negli ultimi sei mesi — ma praticano il “churn and return”: disdetta strategica seguita da riattivazione. Gli anziani faticano con la complessità tecnica.
A peggiorare le cose ci pensano le piattaforme con i dark pattern: interfacce progettate per rendere difficile la cancellazione. Menu labirintici, offerte dell’ultimo minuto, messaggi su quello che “perderete”. La Federal Trade Commission, nel 2024, ha citato lo studio di Einav per giustificare nuove regole sul “click-to-cancel”: disdire deve essere facile quanto abbonarsi. Alcune soluzioni emergono. I bundle aggregati — Tim Vision, ad esempio, ma su questo ammetto un altro piccolo conflitto di interessi — permettono di semplificare avendo in un solo posto tutta una categoria di abbonamenti.
La vera domanda è un’altra: siamo disposti a rinunciare alla libertà di scelta per ritrovare un po’ di serenità? Nel frattempo, il mio telefono continua a squillare. Anche se, devo ammetterlo, il mio costo – in abbonamento mensile – è maggiore del risparmio che produco. Ma cosa non si farebbe per essere finalmente felici?
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