Il canone televisivo italiano è tra i più bassi d’Europa, ma c’è chi lo vuole ridurre e chi addirittura eliminare. La Rai ha senza dubbio tanti difetti, ma eliminare il canone significherebbe buttare via il bambino insieme all’acqua sporca, punire la tv pubblica italiana rendendola schiava della pubblicità ed ancor più suddita della politica. Mercificazione e mortificazione.
La Rai che vediamo è quella voluta dalla cosiddetta “riforma Renzi” di fine 2015, una riformina che ha accentrato il potere di gestione aziendale nelle mani dell’amministratore delegato, e che ha determinato un salto di qualità (in basso): dalla Rai “partitica” alla Rai “governativa”. L’Ad di Rai s.p.a. è infatti nominato dal socio ministero dell’Economia, e già soltanto questo evidenzia la dipendenza dall’Esecutivo. La riforma renziana ha determinato la riduzione del numero dei consiglieri, da 9 a 7, di cui 2 scelti dal Governo, 2 eletti da Camera e 2 dal Senato, 1 dai dipendenti.
In nome di decisionismo e semplificazione, si è messo in atto un paradossale processo di complessificazione, che ha reso la Rai più debole e dipendente dalla politica, anche perché si è deciso di abbassare il canone, dai 113,5 euro del 2015, ai 100 del 2016 ai 90 del 2017 e 2018, riducendo sì l’evasione facendo pagare questa imposta (tale è) attraverso la bolletta elettrica. Non assegnando però tutto il gettito del canone a Rai, bensì utilizzandone una parte per scopi altri, in funzione dei desideri mutevoli del Parlamento, di anno in anno, in legge di bilancio. Un pasticcio, sia dal punto di vista economico (incertezza delle risorse) sia politico (immutata influenza dei partiti).

Esponenti di punta del Partito Democratico, come Antonello Giacomelli (già Sottosegretario alle Comunicazioni) hanno riconosciuto, a denti stretti, che la riforma renziana è fallita, ma l’autocritica è tardiva.Dal dicembre 2015, sono trascorsi quattro anni: si è passati da un Ad di fiducia renziana, Antonio Campo Dall’Orto, che si è dimesso quando si è reso conto di non poter remare contro il suo “padrone” (Matteo Renzi), al nuovo Ad nominato nel luglio 2018, Fabrizio Salini, di fiducia del premier Giuseppe Conte nell’esecutivo giallo-verde. Salvini non ha brillato certo per decisionismo ed è ormai messo in crisi dalla nuova maggioranza del Conte 2, ancora una volta costretto a “contrattare” le nomine dei dirigenti apicali in logica partitocratica. Risultati concreti?! Il processo decisionale è ancora lento e macchinoso, il motore Rai è imballato. Nel febbraio 2019 è stato approvato un “piano industriale” per il 2019-2021, che prevede un radicale cambiamento: da una Rai strutturata per “reti” ad una Rai strutturata per “generi”. Una mutazione epocale, che determina una riorganizzazione aziendale interna complicata: un processo che i più temono, perché può produrre effetti devastanti in una “macchina burocratica” che, pur con tutti i suoi difetti, mantiene ancora una buona quota del mercato televisivo tradizionale.

Nel bene e nel male, la Rai è ancora oggi una delle tv pubbliche in Europa con la maggior quota di ascolti, anche se, con i suoi circa 13mila dipendenti, ha una forza-lavoro inferiore a quella dei “psb” tedeschi, ai 21mila della britannica Bbc e finanche ai 16mila della Francia. Il canone è di 210 euro in Germania, 166 euro nel Regno Unito, 139 euro in Francia. E, a differenza delle sorelle britanniche, tedesche, francesi, la Rai trasmette un bel po’ di pubblicità (inesistente nella tv pubblica britannica, limitata assai nelle tv tedesche).  L’economia politica della tv insegna che più una emittente pubblica dipende dalla pubblicità, più essa tenderà ad omologarsi alle concorrenti commerciali. Ed infatti la Rai è già un ircocervo. Se le si volesse assegnare indipendenza dalla politica, le si dovrebbero assicurare risorse certe e stabili, ed una “governance” che ponga un filtro tra il Governo/Parlamento e il Cda, per esempio attraverso una fondazione cui partecipino gli esponenti della società civile. Quel che è emerso negli ultimi mesi è invece una bislacca idea del Movimento 5 Stelle di abolizione del canone, e di assimilazione della Rai ai tetti pubblicitari delle tv private: idea fatta propria a metà luglio dallo stesso Capo Politico del Movimento Luigi Di Maio, ma poi frenata e riemersa a metà novembre con una proposta della deputata Maria Laura Paxia. Idea sostanzialmente condivisa dalla Lega Nord, e, da qualche giorno, anche da Italia Viva, se è vero che il deputato Michele Anzaldi ha addirittura promosso una petizione sul web, che ha superato in pochi giorni le 25mila firme.

Anzaldi ha anche proposto che, a fronte dell’inadempienza della Rai (secondo lui) ai suoi compiti di servizio pubblico, la si vada a… punire, riducendo progressivamente, di anno in anno, il canone! Gli ha fatto eco, dal Pd, il Ministro per gli Affari Regionali Francesco Boccia, sostenendo che, visto come Rai si sta comportando, è meglio destinare una parte del canone Rai a favore delle tv locali. Queste sortite, oscillanti tra il populista ed il demagogico, non sono basate su analisi minimamente serie, ma sono la conferma di come molti politici vogliano continuare ad imbrigliare la Rai. Negli ultimi due anni, non c’è stato un solo partito che si sia fatto promotore di una riflessione tecnica, accurata e strategica, sul futuro del servizio pubblico nella nuova dimensione digitale: deserto di idee, nemmeno un convegno!  Rai ha certamente tanti difetti, ma eliminare il canone significherebbe decretarne la morte identitaria e la sua omologazione alla televisione commerciale. Gli estremisti liberisti esulterebbero, ma avremmo forse un sistema mediale più plurale, in una fase così delicata della nostra democrazia, che richiede piuttosto baluardi di selezione qualitativa rispetto al flusso crescente delle fake news?!

Angelo Zaccone Teodosi

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