“Io, musulmano, ho tantissimi amici ebrei e sono incazzato nero. Quelli di Hamas sono terroristi assassini, bastardi criminali che hanno ammazzato innocenti, persino bambini, violentato donne. Sono una vergogna per l’Islam. Non rappresentano che se stessi, e vanno eliminati”. Ben Mbarek, 41 anni, marocchino, musulmano, orfano del papà da quando ha 6 mesi, trapiantato (in più sensi, lo vedremo) in Italia dove è arrivato a sei anni con la mamma su un barcone nel 1987, e oggi imprenditore di successo a Firenze, si dispera. E non usa mezzi termini. “Mi sono stufato di non sentire una voce musulmana capace di dire le cose come stanno, e come la stragrande maggioranza di noi musulmani pensa. Io non voglio che si associ l’Islam a queste bestie. Non ci deve essere alcun paradiso per loro. Queste bestie offendono tutti i musulmani per bene”.

Ben ha una storia straordinaria, di quelle che mi hanno molto commosso. Arriva in Italia, dal Marocco, a sei anni, su un barcone, con la mamma. Vengono accolti a Empoli dalla famiglia di Teresita Mazzei, primaria di oncologia dell’ospedale Careggi di Firenze (“Ancora oggi quando ci vediamo è una festa, gli sono molto grato”). Poi, a scuola fino alla terza media, a Firenze, quindi pasticcere a 16 anni (“Avevo il sogno di aprire una pasticceria”, diceva sempre a mamma). Mamma che, da donna di grande dignità, ha sempre lavorato come domestica, o cameriera in ristoranti e hotel, e che oggi vive con lui. Poi l’intuizione della moda, nata dalle prese in giro dei suoi amici: “Ci tenevo molto a vestirmi bene. Ogni volta che ci trovavamo, i miei amici esclamavano: ‘Ecco, è arrivato lo stilista’”, ricorda ridendo. Ben ha un carattere solare, è un entusiasta, contento di essere ormai fiorentino, ricorda quanto bene sia sempre stato trattato in Italia (“Io mi sono sempre comportato bene, e di razzismo sulla mia pelle non ne ho mai patito”), e lasciata la pasticceria comincia a produrre artigianalmente vestiti che vende ai commercianti di Firenze.

Ma ha un sogno e lo insegue: “Fare qualcosa di grande e di mio, diventare imprenditore, l’ambizione è il sentimento che mi rappresenta meglio”, dice. Fonda quindi Benheart, azienda che oggi conta 10 negozi nel mondo (5 in Italia, poi Stati Uniti, Emirati Arabi e Francia) e 34 dipendenti, 30 di quali italiani (“Ma do da lavorare a 190-200 persone, se consideri l’indotto”, dice con l’orgoglio di chi si è arrampicato sull’albero della vita, da solo e partendo da zero, e la freschezza di chi è entusiasta della vita che aveva tragicamente perso e poi ritrovato). Il marchio si compone infatti del suo nome, e della parola ‘cuore’ in inglese, che affonda le radici in una tragedia a lieto fine. La passione per il calcio, dove Ben gioca fino in terza categoria (“Ero bravino come mezz’ala sinistra”) lo porta, nel 2011, su un campo di calcio a Scandicci. In piena partita, Ben crolla a terra: arresto cardiaco. Defibrillato, viene ricoverato a Siena. Coma farmacologico per sette mesi. Poi, il miracolo del trapianto: “Io che sono musulmano credente, sono rinato col cuore di un cristiano”.

Il donatore è infatti un ragazzo italiano. “Sono orgoglioso e onorato di avere quel cuore, e io dico sempre di fare Made in Italy al 100% anche perché il prodotto è pensato col cuore, con quel cuore”, dice molto fiero.
“Io ho amici di ogni religione, e non voglio che l’Islam sia associato a queste bestie di Hamas. Sono le pecore nere dell’Islam, vanno perseguitati in ogni centimetro di mondo. Mi piange il cuore a sapere che ora tante persone, bambini compresi, rischieranno di morire in Palestina solo perché si trovano nel posto sbagliato, con la gente sbagliata. E non voglio che i miei figli, che hanno un cognome arabo, vengano visti male a causa loro. È il motivo per cui io voglio lottare”, ripete più volte, mentre mi racconta di avere quattro figli, due femmine e due maschi (e tre di questi hanno sia un nome italiano, che uno arabo), e mentre scherzando mi ricorda che una mia ex fidanzata è stata sua modella qualche anno fa. “Se essere musulmani significa dover sottacere il fatto che questi terroristi sono un problema da risolvere per sempre, allora io mi dimetto da musulmano. Siccome non è così, siccome quasi tutti la pensano come me, è giusto esporsi.

Io ho tanti amici ebrei, e li amo come fossero miei fratelli”. Giusto un mese fa Ben è stato a Miami ospite a casa di suoi amici israeliani per una settimana. “A casa loro, con loro ho mangiato, bevuto, dormito, mi sono divertito, gli voglio bene. Il giorno dopo gli attentati in Israele, ho inviato loro messaggi di condoglianze, e le loro risposte affettuose mi hanno commosso. Tra dieci giorni aspetto Ronen (il suo ospite a Miami) da me a Firenze”. Ben, giustamente, mischia fratellanza e severità: “È ora di dire basta, e di non risultare equivoci: io voglio la pace con i miei amici di religioni diverse, capisco che in Palestina in moltissimi siano sotto scacco di queste bestie e che dunque abbiano difficoltà a esprimere il loro dissenso, la loro diversità, ma io non voglio che si scateni la caccia al musulmano: perché noi la pensiamo quasi tutti cosi su Hamas e gli atri gruppi terroristici che macchiano la nostra reputazione e non ci rappresentano in nulla”. Chiarissimo.

Ascoltando questo fantastico ragazzo, che è un inno alla vita (e anche all’Italia migliore, di cui ieri è stato figlio e oggi è grande protagonista), la commozione mi ha assalito più volte. Ascoltare la entusiastica gratitudine di Ben per l’Italia che lo ha accolto e integrato, curato e salvato, e che oggi è teatro delle sue imprese e del suo animo buono che sparge coraggio e speranza, è stata un’esperienza anche per me. Perché sono storie come queste che riaccendono in noi la speranza concreta di un futuro migliore. Perché sono protagonisti come questi che ti offrono la certezza che salveranno il nostro mondo, miscelando durezza e dolcezza, ambizione e umanità, in un cocktail decisivo. “Il mondo è sufficientemente grande per vivere tutti insieme, abbracciati. E i primi che abbraccio, sono i miei amici della comunità ebraica, in Italia e ovunque”, sospira deciso. Evviva Ben, il suo coraggio, e tutti quelli come lui.