La Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, istituita dal Ministro della Giustizia Marta Cartabia, ha in questi giorni concluso i lavori. È questa senz’altro una buona notizia. Ora toccherà al Parlamento e al Governo realizzare in concreto quelle proposte finalizzate a migliorare – ma sarebbe meglio dire a legalizzare – l’esecuzione penale. È questa la conseguenza naturale e logica e potrebbe essere anch’essa una buona notizia, ma l’esperienza di quanto è già avvenuto non ci rende affatto ottimisti. E non possiamo e non vogliamo esserlo, perché gli anni trascorsi sono stati pieni di speranze e delusioni.

L’ottimo lavoro svolto dalla Commissione, infatti, riprende, in parte, quanto già elaborato – e poi dalla politica ignorato – dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale e dalle successive Commissioni Ministeriali, che a loro volta si rifacevano a principi costituzionali e a quanto già, per lo più, scritto nell’Ordinamento Penitenziario vigente. Norme che, dal 1975, non trovano applicazione e vengono continuamente disapplicate. Invero, le proposte indicate dalla Commissione prevedono anche la revisione di molte disposizioni del regolamento penitenziario del 2000 potenzialmente subito realizzabili e che consentirebbero di migliorare la vita quotidiana non solo dei detenuti, ma dello stesso personale dell’amministrazione penitenziaria. Il Riformista ha già indicato, ieri, molte di queste proposte che vanno condivise, mentre suscita preoccupazione quella che consentirebbe ai detenuti l’acquisto, allo spaccio dell’istituto, di apparecchiature tecnologiche, quali cellulari o computer, per favorire il rapporto con i familiari ed il lavoro informatico, evitando comunque ogni utilizzo indebito.

Ed ancora l’introduzione di servizi a pagamento, come lavatrici a gettoni. Tali soluzioni non farebbero altro che aumentare la discriminazione sociale che già c’è all’interno degli istituti di pena, dove il detenuto che può concedersi il sopravvitto – il cibo cioè acquistato allo spaccio – gode del “rispetto” di altri che non sono nelle condizioni di farlo. Rispetto che spesso si concretizza in favori leciti ed illeciti e in vere e proprie aggregazioni a gruppi criminali. Il carcere – almeno il carcere – dovrebbe essere il luogo dove le persone non hanno alcun privilegio economico e dove lo Stato garantisce l’uguaglianza nella vita quotidiana, che deve essere finalizzata al futuro reinserimento sociale. Tema questo, scolpito nella nostra Costituzione, nell’Ordinamento Penitenziario e costantemente ribadito in tutti questi anni, nonché ripreso, ancora una volta, nei lavori della Commissione. Un Paese che non possa fornire strumenti di lavoro, ovvero apparecchi per incrementare il rapporto con la famiglia o per consentire una condizione detentiva più agevole, ma che lo permette solo a coloro che ne hanno la capacità economica, persevera a seguire una strada sbagliata ed in senso contrario a quella tracciata in Costituzione.

Più che fiumi d’inchiostro, o meglio pagine stampate, che vanno a formare volumi destinati agli scantinati del Ministero della Giustizia, che, come più volte abbiamo detto, vengono lasciati alla corrosiva attenzione dei topi, occorre una visione del carcere del tutto diversa. Non più commissioni, finalizzate ad allentare le tensioni e a “prendere tempo” ma un decisivo cambio di rotta, che parta anche dalla riforma di quello che già esiste e non funziona. Nei primi giorni di dicembre, l’Unione Camere Penali, nel convegno proprio sulla Riforma carceraria, ha promosso un radicale cambiamento dei Tribunali di Sorveglianza e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, uffici ai quali è affidata l’esecuzione della pena. Se c’è davvero la volontà politica di riformare – e non possiamo dubitare delle parole del Ministro della Giustizia – è da qui che è necessario avviare l’effettiva svolta. Un DAP finalmente diverso, ad esempio, consentirebbe senz’altro una vita detentiva orientata ai principi costituzionali e non ci sarebbe bisogno di commissioni che propongano soluzioni, in parte già scritte.