Non è un momento facile per le carceri italiane. La pandemia, com’era prevedibile, ha comportato una chiusura immediata e netta del sistema penitenziario. La chiusura è infatti la reazione tipica del carcere a qualunque stagione di crisi, e in questo caso la chiusura era più comprensibile e giustificata che mai. Ma mentre fuori lentamente si sperimenta un traballante ritorno alla normalità, in carcere questo processo appare lento e difficile.

Le visite che Antigone ha svolto nel corso dell’ultimo anno svelano un carcere dove ad esempio la formazione professionale è ferma praticamente ovunque da ormai due anni, dove la scuola procede a scartamento ridotto, così come molte attività trattamentali e la presenza del volontariato. Di conseguenza si passa più tempo chiusi in cella, o nel corridoio della sezione, e le sezioni a celle aperte, che si erano affermate come la norma prima della pandemia, in ottemperanza della sentenza Torreggiani della Corte europea dei diritti dell’uomo, sono diminuite rispetto ad allora. È in questo complicato contesto che sono maturati fatti drammatici come i pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, o il quotidiano e silenzioso abbandono che abbiamo trovato nel reparto di osservazione psichiatrica del carcere di Torino. Eppure, come in ogni momento difficile, bisogna saper guardare avanti per individuare una via d’uscita. Ieri, nella Giornata mondiale dei diritti umani, Antigone ha presentato a Roma le sue proposte di modifica del regolamento di esecuzione dell’Ordinamento penitenziario.

Sono passati più di vent’anni dal regolamento del Duemila, parti della legge penitenziaria sono nel frattempo cambiate, ma è cambiato anche il carcere e chi ci vive e ci lavora. Da ultimo anche a causa della pandemia. La nostra proposta parte dall’idea che non sia affatto necessario che, nella ricerca della sua nuova traballante normalità, il carcere debba ripartire da modelli concepiti in altre stagioni. L’emergenza terrorismo, e poi quella mafiosa, sono ricordi del passato. Oggi il carcere italiano è quello dell’emergenza sociale, della povertà e dell’esclusione.
Ma come dicevamo anche la società fuori è cambiata. È cambiato il nostro rapporto con le nuove tecnologie, che sono ormai una risorsa essenziale per le nostre interazioni sociali e la nostra vita professionale. Ma che in carcere non sono mai entrate se non con l’arrivo della pandemia, in risposta all’emergenza e per restare in contatto con i familiari. È un fatto positivo ma che va consolidato ed allargato al resto della vita penitenziaria. Il lavoro a distanza, la telemedicina, la formazione da remoto e l’accesso libero all’informazione sono una risorsa straordinaria per tutti, ed è tempo che anche il carcere ne prenda atto.

Ma è il momento anche di dare più spazio, e più tempo, ai colloqui in presenza o alle telefonate. Perché senza una rete familiare e relazionale vitale e pronta quando si esce dal carcere si va inevitabilmente a sbattere contro un muro. Perché i contatti con l’esterno sono il miglior strumento di reintegrazione e di prevenzione del rischio suicidario.
Vecchie e nuove tecnologie si sono dimostrate inoltre preziose anche per la prevenzione della violenza e dei maltrattamenti. Se Santa Maria Capua Vetere diventerà un momento di svolta per la storia della violenza in carcere in Italia, come tutti ci auguriamo, sarà anche grazie a sistemi di videosorveglianza e archiviazione delle immagini che spesso non ci sono o non funzionano. Anche su questo fronte ci vuole un cambio di passo. Ma le nostre proposte promuovono anche un sistema disciplinare orientato al rispetto della dignità della persona, una riduzione dell’uso dell’isolamento, forme di prevenzione degli abusi, un rafforzamento della sorveglianza dinamica e molto altro.

C’è infine da prendere atto della riforma della sanità penitenziaria avvenuta nel 2008, e che il regolamento penitenziario deve fare propria, contribuendo a garantire quel principio della parità di cura tra pazienti liberi e detenuti che vediamo troppo spesso smentito dai fatti. Si tratta di grandi e piccole riforme che potrebbero essere messe in campo dalla Ministra Cartabia senza che siano necessari passaggi parlamentari. Riforme che ci auguriamo che, almeno in parte, vengono fatte proprie anche dalla Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario istituita ancora dalla Cartabia, e presieduta dal Prof. Marco Ruotolo. Riforme che potrebbero dare finalmente sostanza a questa auspicata stagione di riforma e mandare un segnale netto a chi vorrebbe, uscendo dalla pandemia, anziché andare avanti tornare indietro. Perché, e anche questo è caratteristico del carcere, al suo interno c’è sempre una larga componente che non vede l’ora di tornare indietro.