La trasparenza dovrebbe essere una delle prime regole di un Paese democratico. Quanto più il cittadino è informato, tanto più riesce a comprendere l’effettiva capacità di coloro che governano. Solo la piena e totale conoscenza di fatti e dati consente, nel momento di esprimere le proprie valutazioni, un giudizio incondizionato su coloro che hanno in mano le sorti della Nazione, i quali, a loro volta, non possono fare a meno di una conoscenza totale del campo specifico di azione dove sono chiamati ad operare, altrimenti il loro intervento sarà fallimentare o comunque parziale.

Ciò vale sempre e, a maggior ragione, per la Giustizia penale il cui funzionamento incide in maniera determinante sulla vita di coloro – indagati, imputati o persone offese – che vengono coinvolti, e spesso travolti, nel suo incomprensibile meccanismo. Le Camere penali, da tempo, portano avanti la battaglia per una piena conoscenza dei dati che interessano il mondo giudiziario, con l’Osservatorio nazionale acquisizione dati giudiziari, e sono dovute intervenire, cifre alla mano, anche per smentire alcune fantasiose teorie, come quella che addossava la colpa della prescrizione dei reati alle istanze di rinvio degli avvocati. La recente interrogazione dell’onorevole Enrico Costa al Ministro della Giustizia Marta Cartabia ha nuovamente riaperto la ferita, mai suturata e sempre sanguinante, della mancata conoscenza o comunque di assenza di pubblicazione di dati fondamentali per comprendere l’andamento della Giustizia in Italia. Numeri che sono indispensabili per indirizzare in maniera efficace le modalità d’intervento, per ridare credibilità ad un sistema da tempo al collasso.

Tra l’altro è stato chiesto in che percentuale le sentenze di appello riformano quelle di primo grado, dato significativo per comprendere – e far comprendere – l’importanza del secondo grado di giudizio. In che percentuale vengono accolte le richieste delle Procure della Repubblica, da parte dei giudici per le indagini preliminari, suddivise per reati e tipologia: richieste di misure cautelari, d’intercettazioni, di proroga indagini. Informazioni fondamentali per verificare come si concretizza l’intervento del giudice “terzo” dinanzi alle istanze dell’accusa. Esperienza insegna che una richiesta di proroga non viene mai negata, quasi mai quella d’intercettazioni, a volte quella di misure cautelari. Ma è evidente che occorrono numeri certi, per intervenire. Se si vuole. L’argomento dei dati giudiziari fa ricordare l’indagine sui braccialetti elettronici che l’Osservatorio Carcere Ucpi porta avanti da tempo (il 30 novembre prossimo, come ogni anno, vi sarà a Firenze la giornata dedicata a tale strumento di controllo) e che ha rivelato l’assoluta assenza di elementi essenziali per conoscere il numero di apparecchi disponibili e quello delle richieste avanzate dagli uffici giudiziari, nonché il numero di detenuti, pur destinatari della misura degli arresti domiciliari, rimasti in carcere per assenza del dispositivo.

Manca del tutto, poi, una banca dati sulla qualità delle decisioni dei magistrati, in quanto il Ministero della Giustizia registra solo la loro quantità. Circostanza questa che comporta una disparità di trattamento che penalizza ingiustamente chi lavora con maggiore impegno. Invero lo stesso giudice non viene a conoscenza della riforma di un suo provvedimento, in quanto non è prevista alcuna notifica dell’atto riformato a colui che l’aveva redatto. Un grave errore di metodo che non contribuisce certo alla crescita culturale della stessa giurisdizione. Come poi non ricordare la totale assenza di trasparenza che regna sovrana nel sistema penitenziario. Certamente non dovuta a ragioni di sicurezza, ma solo a quell’idea mai del tutto rimossa, che il carcere è un mondo a parte, che non riguarda i liberi e non interessa i politici. Eppure se il dramma delle nostre prigioni fosse patrimonio comune, se la dirigenza del Paese e la cosiddetta “società civile” se ne occupasse in maniera attiva e concreta, non avremmo fatto altro che applicare i principi della Costituzione.