La condanna in primo grado di Mimmo Lucano a una pena di oltre 13 anni di reclusione ha lasciato praticamente tutti sbigottiti, finanche la Procura che aveva chiesto una condanna molto più bassa. Si è optato per una pena severissima (possiamo definirla feroce?) secondo un andazzo che, da un punto di vista empirico, stiamo registrando sempre più frequentemente, visto che è ormai frequente che i Tribunali comminino pene più alte di quelle richieste dall’accusa, e pone seri interrogativi sulla mutazione della figura del giudicante, divenuto spesso più “realista del re” (le Procure).

Non conosciamo nel dettaglio il processo, ragion per cui non entreremo nel merito della vicenda. Vi sono, tuttavia, delle considerazioni che possono essere espresse anche prima di leggere le ragioni di una simile severissima condanna, pur consapevoli, però, che il caso di Mimmo Lucano non si presta a svolgere una funzione paradigmatica. È un caso eccezionale, straordinario nelle premesse e nelle conclusioni. Autorevoli intellettuali hanno sottolineato che questa condanna è figlia degli aumenti costanti e spesso ingiustificati di pena che hanno caratterizzato tutti i reati negli ultimi decenni e, in particolare, i reati contro la pubblica amministrazione. C’è sicuramente del vero in questa affermazione ma, allo stesso modo, va sottolineato che, anche alla luce della legislazione attualmente vigente, la pena poteva essere molto molto più bassa, anche inferiore ai quattro anni di reclusione. Nel caso Lucano il Tribunale sembrerebbe aver ritenuto che si fosse in presenza di fatti di peculato gravissimi. E qui i conti sembrano non tornare.

È stato, infatti, escluso dalla stessa pubblica accusa un arricchimento personale, tanto che l’evanescente movente veniva individuato in ragioni di accrescimento del consenso elettorale. Così come non è in discussione lo straordinario impegno e generosità che il sindaco Lucano ha profuso per assicurare l’accoglienza a chi scappava dalla fame e della guerra, tanto che Riace è divenuto un simbolo mondiale di umanità e di accoglienza. E anche un simbolo di buona e nuova amministrazione. E allora se – come è probabile – le eventuali irregolarità amministrative riscontrate dai giudici sono state il frutto di un “eccesso di generosità”, della volontà di aiutare chiunque ne avesse bisogno anche a costo di violare la legge (questo era nei fatti l’assunto accusatorio), la pena inflitta dai giudici rappresenta una straordinaria ingiustizia.

Sappiamo che diritto e giustizia purtroppo non sempre coincidono. Ma quando lo iato si fa così profondo e così lacerante, quando la cesura diviene sempre più frequente, quando il diritto perde ogni capacità di comprendere la vita reale (come Luigi Manconi ha osservato pochi giorni fa su la Stampa), il diritto penale rischia di perdere ogni legittimazione e reale utilità. Diviene mero strumento autoritario al servizio esclusivo dell’apparato statale. E qui entra in gioco la figura del giudicante che non può essere un mero asettico valutatore delle prove o, peggio, un autistico “ragioniere della pena”.  Per questo basterebbe l’algoritmo di cui giustamente tutti noi temiamo l’ingresso nelle aule di giustizia. Il giudicante ha il dovere primario di valutare il reale disvalore di una condotta, non può limitarsi a compiere calcoli aritmetici. E se ritiene che una condotta, pur in ipotesicostituente reato, ha una carica di disvalore bassissima o addirittura – come nel caso di Lucano – è tesa a tutelare interessi di rango costituzionale, ha l’ineludibile dovere di fare tutto quanto nelle sue possibilità per adeguare la pena alle caratteristiche del caso sottoposto alla sua cognizione.

Il nostro codice penale – pur su questo versante ancora molto carente atteso anche l’humus autoritario di cui lo stesso è figlio – avrebbe infatti consentito di temperare in modo significativo la pena inflitta e forse addirittura di ritenere non punibile la condotta previo il riconoscimento di scriminanti senz’altro applicabili al caso di specie. Come don Milani, come Marco Cappato, come Danilo Dolci e tanti altri, Mimmo Lucano ha messo in gioco il suo corpo per la tutela degli ultimi e dei diseredati. E questa generosità, intelligenza e cultura non saranno mai intaccate da qualsiasi alchimia giudiziaria.