La vicenda di Garlasco porta in emersione tutte le deformazioni della giustizia in Italia: la componente emotiva della piazza, quella spettacolare dell’informazione, l’allestimento dell’aula mediatica, la celebrazione del processo sociale, la “contaminazione” di quello penale. Ne abbiamo parlato con Alessandro Barbano, Direttore de L’Altra Voce, già Direttore de Il Messaggero, Il Riformista, Il Mattino e autore de «L’Inganno» e «La Gogna».

Direttore Barbano, partirei dalla spettacolarizzazione mediatica che si attiva per i fatti di cronaca giudiziaria. Qual è il confine tra il diritto all’informazione e la morbosa curiosità sociale?
Il confine è molto labile e non riguarda tanto l’oggetto dell’informazione, ma il metodo. La cronaca nera e la cronaca giudiziaria sono centrali nei processi di maturazione dell’opinione pubblica. L’elemento patologico è la modalità morbosa e la replicazione del processo che avviene in sede mediatica. In questo processo parallelo manca, oltre a tutta la tecnica processuale, un elemento fondamentale che è il dubbio. Qui c’è un problema di inadeguatezza della formazione, dell’etica e della deontologia della classe giornalistica che acquisisce le notizie e le trasmette. Si ritiene spesso che i fatti di cronaca siano maneggiabili da chiunque, ignorando che attorno alle vicende della cronaca giudiziaria e della nera si maneggiano valori essenziali per una comunità e per una democrazia.

Quanto l’aspettativa di un colpevole, quale tranquillante sociale spinge gli investigatori verso la ricerca di un capro espiatorio purché sia?
Tutte le volte in cui un fatto di cronaca diventa il caso mediaticamente rilevante, si attiva nel sistema giudiziario una sorta di reazione autoimmune. La macchina dell’investigazione si sente chiamata a dare una risposta di efficienza alla domanda di giustizia che viene dalla piazza. Il rischio in queste vicende è di imboccare la via che porta al risultato quale che sia, al colpevole quale che sia, il primo che è possibile trasformare in un bersaglio mediatico da esporre sulla pubblica piazza per soddisfare la fame di giustizia e produrre quella catarsi che, un grande antropologo come René Girard, chiama la “sindrome del capro espiatorio”.

I social network e i talk show sono le aule post-moderne di una giustizia inquisitoria che trascura la presunzione di innocenza. Perché non riusciamo a risalire dal buio della ragione neppure di fronte alla nuda aritmetica degli errori giudiziari?
L’errore giudiziario si produce sul terreno del giudicato e, quindi, sul terreno di quel filtro che la giustizia dovrebbe assicurare anche di fronte all’avvitamento del sistema nella logica del capro espiatorio. Dovrebbe essere in grado di disinnescarlo, di riconoscerlo, di smascherarlo e invece così non è. Qui entra il principio del ragionevole dubbio che è lo strumento straordinario che la giustizia ha per sottrarsi a questo rischio. Un patrimonio metodologico non solo del processo penale, ma è un principio fondamentale della democrazia liberale, perché è il principio che mette la democrazia nel rapporto con il limite e con la coscienza della finitezza dei suoi mezzi. Una democrazia che accetta il ragionevole dubbio accetta la sua imperfezione e, quindi, diventa – come direbbe Churchill – il migliore dei sistemi possibile, ancorché imperfetto. La democrazia che rifiuta il ragionevole dubbio si pone l’obiettivo di raggiungere la perfezione e nega se stessa.

Per la Costituzione è “meglio un colpevole fuori che un innocente in carcere”. Il sentire sociale, che va in direzione opposta, sembra oramai contagiare anche la giurisdizione. Emblematica proprio la vicenda di Garlasco, se è vero che neppure la “doppia conforme” di assoluzione è valsa a fondare il ragionevole dubbio.
Il ragionevole dubbio presuppone quella che io chiamo l’indifferenza all’esito del giudicato, che è una cosa ancora più ampia della terzietà, perché è indifferenza all’esito del giudicato, cioè vuole dire che la giustizia riconosce il suo verdetto di assoluzione o di colpevolezza, allo stesso modo, come un risultato della sua azione. Quando manca questa indifferenza e, quindi, la giustizia si assegna uno scopo, il rischio diventa altissimo di un giudicato falso. Nel caso di Garlasco, la Corte approda a un esito che è irragionevole secondo logica, perché rilegge in una chiave diversa le prove indiziarie ritenute insufficienti dai giudici di merito, e ne fa oggetto di una costruzione colpevolista. È chiaro che in tal modo il ragionevole dubbio viene calpestato ab origine, perché quando si approda ad un verdetto di condanna dopo due verdetti di assoluzione, il principio viene negato, non esiste più.

La bulimia mediatica e l’aspettativa di punizione condizionano la verginità cognitiva del Giudice e pure la sua serenità di giudizio, mentre la fedeltà al diritto richiede il coraggio che fu di Michele Morello, Giudice di Enzo Tortora.
Nel caso Tortora ci fu una macchina della giustizia infernale che aveva stabilito l’obiettivo di provare la sua colpevolezza per legittimare il suo errore iniziale, e quindi si sentiva dentro una contesa politico-mediatica che metteva in discussione la stessa legittimazione dell’azione penale. E lì solo la statura di un magistrato come Morello poteva ribaltare una fatwa collettiva e smontare con il coraggio della sua solitudine l’assunto di colpevolezza. La solitudine è una virtù. È la virtù del giudicante, io dico il primato del giudicante, ed è l’autorità di ultima istanza del sistema. Il travaglio personale del giudice di fronte alla ricerca della verità e la consapevolezza dei limiti e della finitezza del suo giudizio, costruiscono l’architettura di una garanzia che la giustizia rappresenta per il cittadino, di una garanzia democratica. In questa direzione vedo due riforme necessarie. La separazione delle carriere, perché assicura o, quantomeno coltiva, promuove, il primato del giudicante, che non è una posizione di privilegio, ma è una posizione di responsabilità che il Giudice assume rispetto all’esito finale che la giustizia propone, ai suoi rischi e alle sue garanzie. L’inappellabilità delle sentenze di primo grado, un meccanismo di tutela che ha a che fare con la finitezza della giustizia: si tratta di un principio sacrosanto, che riguarda proprio il limite che la giustizia deve darsi nel rapporto investigativo e autoritativo con il cittadino.

Ne usciremo?
Qui sicuramente c’è l’impegno dei media. Ne usciremo se riusciremo a costruire una cultura diversa. Una cultura che non è “del risultato”, ma che fa del processo l’essenza della democrazia e quindi del dubbio e del limite.

Francesco Iacopino - avvocato penalista

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