Intervistando il rettore di Siena, che si pronuncia su ogni cosa e passa dalla storia all’arte, dalla botanica alla giurisprudenza, dalle foibe alle banane, Luca Telese lo presenta come «uno degli ultimi intellettuali critici della sinistra italiana». Dopo aver ripercorso la giovanile formazione democratico-cristiana e le rivalità scolastiche con Renzi, che militava in un’altra corrente dello scudocrociato fiorentino, Montanari si pavoneggia oggi come l’interprete della sinistra più radicale che esibisce la bella verità contro un universo di politicanti erranti.

Quello che più ama fare il rettore è di immergersi nella vasta materia politico-costituzionale che per lui non possiede i paradigmi di un sapere speciale e anzi si presta ad essere un malleabile oggetto dell’opinare da scandagliare secondo illimitate licenze artistiche. Indispettito per la conferma di Mattarella (gli è stata per lo meno risparmiata l’investitura di Draghi, che per lui «avrebbe massacrato la Costituzione») il rettore si cimenta da par suo, e cioè in maniera liberamente artistica, nelle sottigliezze ermeneutiche del diritto costituzionale. «La Costituzione dice, a mio parere in modo chiaro: l’assemblea dei grandi elettori vota il nuovo presidente». La formula “il nuovo” capo dello Stato per Montanari implica che solo un “nuovo” corpo fisico al posto del vecchio non più proponibile potrebbe essere formalmente eletto dai “grandi elettori”.

Rapito dalle parole magiche del giureconsulto, che per giunta è anche intellettuale critico, Telese non ha l’ardire di chiedere se la sua novella dottrina comporti la necessità di interpretare anche l’articolo 61 («le elezioni delle nuove camere») come un formale impedimento al cumulo dei mandati parlamentari. Per sorreggere la sua sofisticata dottrina in merito alla dizione “nuovo” presente nella Costituzione osservata come opera d’arte Montanari non esita dinanzi all’impresa aggiuntiva di indicarne anche i sostrati storici che la legittimano in maniera inconfutabile. Rammenta, da originale scopritore della genealogia del diritto pubblico, al silente Telese: «Durante la Costituente Terracini spiegò chiaramente: con l’articolo 85 rieleggere il vecchio presidente sarà impossibile. Questa era la volontà, chiara». Più che da Terracini la visione più influente dei comunisti sulla rielezione fu illustrata sinteticamente da Togliatti.

Nella seduta del 21 gennaio 1947 Terracini ricordò i punti di dissenso tra i partiti in seno al comitato speciale della seconda commissione, che su certe materie si era conclusa con una perfetta parità nelle votazioni. Le controversie riguardavano l’integrazione dei parlamentari con i delegati regionali, ritenuta dalle sinistre come una scelta incompatibile con l’elezione dei senatori che già era calibrata su base regionale, la durata di 4 anni della presidenza, auspicata da Nitti, l’investitura diretta del capo dello Stato, che fu esclusa definitivamente da Perassi, la formulazione dell’articolo 81, nel quale il comitato di redazione suggeriva una carica quirinalizia dalla durata di 7 anni con un presidente non rieleggibile. Il senso del confronto che avvenne tra i padri della Repubblica è precisamente opposto a quello evocato dal rettore che abbraccia i lavori della costituente per strattonare la politica di oggi che avrebbe tradito i principi originari della Carta con la rielezione di Mattarella.

Lungi dall’essere sedotta dal divieto ultimativo di un nuovo settennato, la sinistra con Togliatti prese la parola per affermare: «la norma, come è stata formulata adesso, è troppo restrittiva. Per essere chiamati alla carica di Presidente della Repubblica occorrono qualità particolari e non si può escludere per sempre una persona già eletta». Il leader comunista non escludeva affatto la rielezione come principio costituzionale e apriva alla eventualità di prescrivere un intervallo temporale («Si potrebbe, se mai, prevedere la non rieleggibilità immediata per una volta»). Aldo Moro risolse in radice la questione escludendo il limite della non rieleggibilità immediata perché di fatto il rimedio appariva, alla luce della durata del mandato, come equivalente per così dire naturale al divieto della rieleggibilità, che invece non era in sé un principio da rigettare. Venne approvata pertanto la proposta di Tosato che parlava solo del settennato senza riferimento alcuno al divieto della rielezione.

L’orientamento della sinistra e della Dc non era affatto quello indicato dal rettore che assume la rielezione di Mattarella come pretesto per delegittimare la classe parlamentare, sorda rispetto al verbo costituente, e le politiche istituzionali degli ultimi dieci anni. Nel 1947 Egidio Tosato formulò anche dei principi costituzionali che mostrano tutta la loro fertilità nel valutare le dinamiche istituzionali odierne. Contro l’istanza di Nitti (presidenza di 4 anni) e le esortazioni al presidenzialismo americano (il costituente lo temeva non per il cesarismo, ma per la mancanza di un sistema bipartitico) Tosato sostenne che la durata lunga, “monarchica” alla francese, serviva a «soddisfare l’esigenza di una certa permanenza, di una certa continuità nell’esercizio delle pubbliche funzioni». Il capo dello Stato non ha né troppi né pochi poteri, dispone di quelli che servono per esercitare la delicata funzione «di essere il grande regolatore del gioco costituzionale, di avere questa funzione neutra, di assicurare che tutti gli organi costituzionali dello Stato, e, in particolare, il Governo e le Camere, funzionino secondo il piano costituzionale».

Napolitano e Mattarella hanno giocato al meglio questa funzione che Tosato chiamava di «grandi regolatori del gioco costituzionale», conservando la tenuta del sistema in condizioni di vuoto per la liquidità estrema del sistema politico. Tutto questo preoccuparsi per la stabilità di sistema non persuade però il costituzionalismo con la venatura artistica di Montanari che, indossando dopo quelli di storico delle costituzioni anche gli abiti dell’analista delle politiche pubbliche e di bilancio, bastona il governo che «dà soldi ai cannoni e li toglie agli ospedali». La colpa è tutta di Draghi, che avrebbe portato Salvini al governo (ma non era il vice di Conte?) e sarebbe più a destra di Berlusconi, e che per il 2024 taglierà le spese sanitarie (passando dal 7,3 al 6,3% del Pil) di ben 6 miliardi (rispetto ai 129 miliardi del 2021 che prevedono fondi straordinari per l’emergenza). Il rettore trascura che la cifra del Dpef è al netto di investimenti (i 20,2 miliardi previsti dal Recovery Fund), e che, letti i numeri in rapporto all’inflazione, alla crescita del Pil, la spesa reale, secondo alcuni analisti, crescerà del 2,8%.

Ma i dati reali sono evanescenti per il rettore che gioca anche brutti scherzi al vecchio principio di non contraddizione. Imputa a Draghi «la rinuncia a governare la pandemia» e rammenta che con il suo lassismo fortemente colpevole l’esecutivo «ha prodotto una impennata di morti. È stato un disastro». Ma subito dopo il rilievo circa un criminogeno cedimento del potere, che ha abdicato alla decisione in nome di sua maestà il mercato, rimprovera al governo una «ennesima proroga dello stato di eccezione» ovvero un recupero smisurato di sovranità e un eccesso di potere. Certo, dinanzi a uno degli ultimi intellettuali critici, Telese non trova le parole per riscontrare le enormità politiche di taluni affondi e soprattutto per evidenziare le insanabili contraddizioni logiche delle argomentazioni.

Con qualche punta di settarismo Pajetta diceva che a sinistra del Pci c’era solo il vuoto. Ora a sinistra del Pd, di Leu, c’è Montanari cantore nostalgico delle “pallide cose socialdemocratiche” del governo Conte (quello del miliardario superbonus edilizio?). Il metapartito democristiano veramente ha occupato ogni spazio immaginabile della politica e ovunque sventola bandiera bianca, dal Quirinale alle barricate senesi erette dall’ultimo intellettuale critico contro la repubblica delle banane.