Se c’è un nome legato in modo indelebile agli aspetti più atroci degli anni di piombo è quello di Achille Lollo morto ieri in un ospedale di Trevignano all’età di 71 anni. Prescritto dal 2005 era di nuovo in Italia dal 2010, dopo una latitanza durata decenni, prima in Svezia, poi in Angola, infine in Brasile. Era stato condannato per il “rogo di Primavalle”, l’incendio dell’abitazione del segretario del Msi di Primavalle, a Roma, Mario Mattei, nella notte tra il 16 e il 17 aprile 1973. Nell’incendio perirono due figli di Mattei, Virgilio, 22 anni, e Stefano, 8 anni. I coniugi Mattei e altri 4 figli riuscirono a salvarsi uscendo dalla porta principale prima che le fiamme lo rendessero impossibile o buttandosi dalle finestre. Virgilio e Stefano non ce la fecero. Perirono di fronte alla folla che si era radunata di fronte all’edificio in fiamme. A provocare l’incendio era stato un gruppo di militanti sella sezione di Potere operaio di Primavalle, tra cui lo stesso Lollo, con Marino Calvo e Manlio Grillo, che invece riuscirono a fuggire e poi a espatriare. Il gruppo che aveva deciso e preparato quell’attentato, senza avvertire i vertici di Potere operaio, era però più numeroso: composto da altre persone i cui nomi sono emersi solo a distanza di decenni e le cui responsabilità dirette non sono mai state accertate.

Il “rogo di Primavalle” fu uno degli episodi più atroci di quell’epoca. Colpì l’opinione pubblica con estrema violenza, perché perì tra le fiamme un bambino e perché la tragedia si svolse sotto gli occhi di tutti, immortalata da fotografie raccapriccianti che fecero il giro dei media. Lollo ha sempre negato ogni intenzione omicida, affermando che l’attentato, come altri in precedenza, doveva avere solo scopo dimostrativo. Nella sua ricostruzione, il gruppo fuggì dopo che si era rotto il congegno d’innesco della bomba artigianale, lasciando la tanica di benzina che avrebbe preso fuoco. È probabile che l’intenzione fosse davvero quella di un attentato senza vittime mentre è del tutto incredibile ipotizzare che a innescare l’incendio, dopo la fuga degli attentatori, sia stato qualcun altro. La dinamica precisa degli eventi di quella notte tragica resterà sempre misteriosa ma la responsabilità di quello che si era battezzato “Gruppo Tanas” è certa.

Quella responsabilità i due latitanti la negarono anche con la loro organizzazione. Il futuro brigatista Valerio Morucci, allora capo militare di Po, non gli credette, svolse di persona una controinchiesta, costrinse Calvo a confessare sotto la minaccia di un’arma spianata. Tuttavia, pur a conoscenza di come fossero andate le cose, il gruppo decise di negare ufficialmente, addossando la colpa a una faida tra esponenti del Msi. Il peso di quella vicenda, però, ebbe un ruolo mai ammesso ma incisivo nello scioglimento di Po, pochi mesi dopo. La campagna sull’innocenza dei tre, indicati come vittime di una montatura, nel clima dell’epoca ebbe successo. Dario Fo e Franca Rame guidarono la campagna innocentista. Politici di primo piano come Riccardo Lombardi e persino un padre della patria come il comunista Umberto Terracini presero le difese degli accusati.

Il processo si aprì il 24 febbraio del 1975 in un clima di tensione estrema. Sia i militanti della sinistra extraparlamentare che quelli neofascisti erano in aula. Lo scontro era inevitabile ed esplose il 28 febbraio, in una battaglia di strada nel corso della quale fu ucciso a colpi di pistola il giovane missino Mikis Mantakas. Gli imputati furono assolti per insufficienza di prove. Sei anni dopo la corte d’appello annullò la sentenza perché uno dei giudici popolari “era affetto da sindrome neopsichiatrica”. La Cassazione confermò l’annullamento e dispose un processo d’appello bis che si concluse nel 1986 con la condanna, confermata l’anno seguente dalla Cassazione. Ma non per strage, come chiedeva l’accusa, bensì per omicidio colposo: i 18 anni prescritti nel 2005.

Calvo, morto pochi anni fa, e Grillo non erano mai rientrati in patria. Lollo era fuggito durante il primo appello. Figlio di un ex partigiano si era sposato con una portoghese angolana, aveva avuto 4 figli poi si era spostato in Brasile dove aveva continuato a militare nell’estrema sinistra ammettendo la responsabilità, che definiva però non intenzionale, nel rogo ma rivendicando sempre la fede rivoluzionaria e comunista. Era stato direttore di tre testate, militante nelle formazioni della sinistra brasiliana, autore di documentari sui conflitti sociali nei Paesi dell’America latina. Rientrato in Italia scriveva su Controiformazione e su L’antidiplomatico siti della sinistra più radicale, si occupava di agricoltura biologica. Proprio la collaborazione con L’antidiplomatico aveva provocato nel 2016 la sollevazione di FdI contro i 5S perché la testata era registrata a nome di un collaboratore di Di Battista. Erano accuse infondate ma Lollo era condannato a portarsi dietro ovunque l’ombra di quell’orrore del quale era stato certamente colpevole. Ma, nonostante tutte le sue responsabilità, anche un po’ vittima.