Il riformista soffre ancora di solitudine, come scriveva Federico Caffè circa trent’anni fa? E come riconoscere un vero riformista? Mi si passi la tautologia, ma il riformista si riconosce dalle riforme. Da quelle riforme che sono in grado di trasformare la società, migliorando le condizioni di vita con-crete di cittadine e cittadini. Non può esservi, quindi, riformismo che non parta dai diritti, in una prospettiva non escludente. Perché i diritti (per fortuna di tutte e tutti noi) non sono un gioco a somma zero: detto in altri termini, se sosteniamo i diritti di alcuni, non significa che siamo costretti a ridurre i diritti di altri. Partendo dal lavoro. La società italiana sembra essere ormai assuefatta alle ingiustizie ed è assolutamente condivisibile puntare il faro sulle fasce marginali di forza lavoro, sostenere in primo luogo quei lavoratori e quelle lavoratrici che vivono in condizioni di affanno e di precarietà. Ma perché una strategia possa dirsi realmente riformista, è indispensabile riflettere al contempo sul miglioramento complessivo delle condizioni nelle quali versa la maggior parte dei lavoratori e delle lavoratrici, con l’obiettivo di innalzarle e migliorarle, di creare una società più giusta nella quale chi lavora e si impegna possa vivere una vita soddisfacente e dignitosa. Non dimenticando poi i diritti delle donne. Primo fra tutti il loro diritto ad un lavoro retribuito, che è legato alla necessità di una rivoluzione profonda del concetto stesso di cura, basato una volta e per tutte su una genitorialità che sia realmente condivisa. Ma per fare tutto questo, per portare avanti le riforme (insomma, per esse-re riformisti), bisogna poter spendere, è necessario impegnarsi nella definizione delle politiche economiche del Paese. E allora, un vero riformista si riconosce forse anche dal suo coraggio nell’affrontare il tema della selezione della spesa: quali riforme finanziare? Da dove partire?
Ed è anche giunto il momento di affrontare il tema del merito, tanto caro ai riformisti ed alle riformi-ste. Perché il talento è divenuto quasi un valore morale. E se è vero che il talento è un merito, allora cosa fare di quanti non ne hanno? È giusto che vengano lasciati indietro? In questa fase di ridefinizione strategica, possiamo continuare a sostenere che il mercato riesca ad allocare efficacemente le risorse e che quindi il riconoscimento del valore del talento risponda ad un’esigenza di massimizzazione e ci conduca verso un equilibrio complessivo. Il merito ed il talento vengono retribuiti di più perché producono maggiore ricchezza, ovvero più Prodotto Interno Lordo. Ma possiamo riconosce-re che non tutte e tutti iniziamo la nostra corsa dagli stessi blocchi di partenza. E quindi forse, possiamo spingerci fino a scindere il contributo del lavoro al PIL dal suo contributo sociale, ammettendo una volta e per tutte che il valore sociale delle diverse occupazioni non può e non deve essere definito dal mercato. Ma questo richiederebbe una profonda revisione del riformismo. Tuttavia, che ne sia arrivato il momento? Quali parole chiave conservare e quali nuovi termini adottare, per un riformismo rivoluzionario? Libertà, solidarietà, coraggio, identità sono senza dubbio ancora le parole chiave del riformismo. Ma il tempo è maturo per adottarne altre.
Questi alcuni dei temi emersi durante l’incontro “Il riformismo è morto. Viva il riformismo”, organizzato dall’Associazione Volare a Castagneto Carducci lo scorso sabato. E allora, è vero che noi riformisti “trasmettiamo la nostalgia dei reduci, più che la forza degli eredi”, come ha scritto il Coordinatore di Volare, Senatore Tommaso Nannicini nella sua relazione introduttiva?
È sicuramente il momento di guardare avanti, di utilizzare le radici per crescere in nuove direzioni. Di palesare gli obiettivi e di rimettere a fuoco gli ideali. Senza lasciare indietro nessuno e nessuna, partendo dalle disuguaglianze esistenti con la prospettiva concreta di superarle, avendo forse più coraggio di quanto non si sia avuto sinora.