Saremo intransigenti, faremo opposizione dura”, aveva tuonato Giuseppe Conte all’indomani del voto del 25 settembre scorso. Atteggiandosi in guisa di Attila, flagello della maggioranza, brandiva la metaforica scure dell’indomito capo ribelle. “Dovranno fare i conti con noi, eccoci pronti”, gridava.

Sembrava pronto a  calzare l’elmo con le corna, prima di entrare in Parlamento. Doveva essere il punto di riferimento della più feroce contrapposizione in aula a Giorgia Meloni e al suo governo. E però subito dopo, messo a posto nei primi giorni di vita parlamentare l’armamentario offensivo, si era messo al telefono per far sapere di esserci: ai tavoli sulla Rai, sulle nomine pubbliche, per il Csm e per gli alti gradi di esercito, Guardia di Finanza e intelligence, il suo ruolo di kingmaker non doveva mancare mai. Il 13 ottobre, quando Palazzo Madama riscontra qualche frizione nella coalizione di centrodestra, più di qualcuno adombra il sospetto che sia stato il suo M5S ad offrirsi per far pervenire al candidato presidente, Ignazio La Russa, i 13 voti che gli mancavano.

Lo si legge nelle analisi dello stesso compagno di banco dei Cinque Stelle, il Pd allora guidato da Enrico Letta: “Può essere stato un segnale del Movimento all’indirizzo di Conte, per questioni di equilibri interni”, sussurravano dalle parti del Nazareno. Sia come sia, l’atteggiamento di Conte è stato sempre ostile in aula e molto più smussato dietro le quinte. Le due facciate ne fanno una stessa medaglia, quasi uno stesso gettone da inserire nel juke-box a seconda della musichetta da suonare.

Qua e là il M5S, che tanto doveva essere intransigente, esce dall’aula. Altre volte, si astiene. Come sulle nomine Rai: quando il Cda l’altro giorno doveva votare su Roberto Sergio come amministratore delegato, ha votato contro il solo Pd. Solo Francesca Bria (in quota dem) gli ha detto di no mentre il rappresentante dei dipendenti Riccardo Laganà e soprattutto l’esponente del M5S Alessandro Di Majo si sono astenuti. Per poi balbettare: “Sì, ma l’astensione vale come un voto negativo…”, però rimane che non hanno votato contro. Dando un segnale chiaro, incontrovertibile.

E non a caso l’asse sulla Rai paga: la Vigilanza Rai è andata non solo ai Cinque Stelle, ma a una fedelissima di Giuseppe Conte come Barbara Floridia. Un accordo – quello di Conte con Giorgia Meloni – che ha visto quest’ultima appoggiare la nomina di Alfonso Bonafede come membro laico del Csm per la magistratura contabile. Anche il rapporto tra Bonafede e Conte è descritto dai ben informati come strettissimo. Quando Dj Fofò, il disc jockey che impazzava nelle discoteche siciliane, assunse i panni dell’avvocato in quel di Firenze, fu lui a intrecciare con il professor Conte, dell’università di Firenze, quell’intesa che ha poi introdotto l’ex premier a Beppe Grillo e quindi condotto al vertice del Movimento. Il debito di gratitudine è chiaro.

Nei mesi scorsi Bonafede era stato dato in pole per la nomina al Csm, ma a frenarlo era stata un’interpretazione stringente data dal regolamento parlamentare al requisito dei 15 anni di esercizio della professione di avvocato. Per arrivare all’elezione dei laici dei Consigli di presidenza serve la maggioranza assoluta dei componenti l’assemblea: sia alla Camera che al Senato le nomine erano bloccate da mesi per mancanza di un accordo. Quello che una testata piuttosto addentro alle vicende di casa grillina, Il Fatto Quotidiano, ha descritto didascalicamente come “Accordo destra-M5S sui laici del Csm” e che ha portato anche alla nomina di Francesco Cardarelli tra i membri laici  del Consiglio superiore dei giudici amministrativi. È lui il giurista che per il M5S ha assunto la difesa nei ricorsi a Napoli intentati dall’agguerrito Lorenzo Borré.

Insomma i grillini non ne vogliono sapere di uscire dal Palazzo. Aperta la scatoletta di tonno, hanno scoperto di avere per quella pietanza una vera dipendenza. Una bulimia di potere. Visibile anche nei dettagli: quando Roberto Cingolani, che fu indicato ministro nel governo Draghi in quota contiana (intesa tanto equivoca da durare  lo spazio di poche settimane) è stato nominato dal governo Meloni a capo di Leonardo, eccoli di nuovo schierati a festa, i grillini. Tutta la batteria dei parlamentari e perfino degli ex parlamentari del Movimento dichiarare alle agenzie di stampa la loro stima e fiducia incrollabile per l’ex ministro della Transizione ecologica. “Il potere logora chi non ce l’ha”, insegnava Giulio Andreotti. E per non finire logorato, Conte di notte tratta e di giorno torna sulle barricate: una commedia delle parti dalla trama già vista.

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.