Eclissica (Feltrinelli) di Vinicio Capossela è un libro fluviale che scappa via da tutte le parti, un testo libro inclassificabile, che eclissa il genere letterario di appartenenza (poi tornerò su questa incertezza che è la tonalità di fondo). Diario di bordo della sua attività concertistica, lampeggiante monologo, magmatico poema in prosa (franante, anzi “precipitante”, come una chiesa di Belgrado qui rievocata), uno sterminato ipertesto dove entri dove vuoi, uno zibaldone realistico e allucinato (con descrizioni precise, minuziose di luoghi e persone – la “neve cremosa” di Sarajevo – ma come viste in dormiveglia), e infine manifesto anarchico nonviolento.

Si compone di istantanee di viaggio, annotazioni personali, citazioni letterarie, intrecciate tra loro. Gli autori evocati sono così tanti che qualsiasi loro riepilogo sarebbe approssimativo per difetto, a questo punto ne cito solo tre, Pasolini, Ceronetti e un regista, Sergio Leone, oltre ovviamente a Dante. Ne manca uno che mi sarei invece aspettato, Carmelo Bene: questo ininterrotto flusso di immagini e parole, questa prosa ipnotica, musicale, e poi l’immaginario meridionalissimo e visionario mi ricordano il Carmelo Bene di Nostra signora dei turchi (penso solo alla caduta di Costantinopoli) .Vi si parla di eclissi: ecco, chissà che il nucleo vero del libro sia nascosto dall’ombra che il libro proietta. Accennavo alla sospensione: se eclissi coincide con apocalisse (che non significa sciagura ma rivelazione, e possibile redenzione), allora Capossela è incerto se temere la eclissi o invece auspicarla. Se vi può interessare io la eclissi del 1961 non me la ricordo, mentre mi ricordo dove stavo quando la tv annunciò l’assassinio di Kennedy. Però fu immortalata in un (mediocre) film, Barabba, per i due minuti della morte di Cristo in croce.

È impossibile riassumere correttamente il libro o anche solo elencare in modo completo le sue innumerevoli suggestioni. Provo a definire, senza alcuna gerarchia, alcune correnti principali che lo attraversano. Anzitutto una idea al tempo stesso utopica e altamente drammatica di bellezza. La bellezza salverà il mondo? Sì, se sopravviviamo alle ferite che ci infligge, se siamo capaci di trasformarle in dialogo con Dio, in strumento di elevazione attraverso un “lavoro inumano”. La bellezza da sola non basta, e quella frase di Dostoevskij è diventata una frase da Baci Perugina. Poi, legato al primo punto: una idea dionisiaca, appunto eclissica, non apollinea dell’esistenza (che è urto, lacerazione, conflitto senza vera soluzione). Però da questo fondo tragico e conflittuale si genera pure una aspirazione alla quiete (una quiete minerale, come regressione al’inorganico), alla fine del conflitto. La grazia come smettere di opporre resistenza. «Ci deve essere un luogo dell’anima dove c’è posto per tutto, dove le cose non si fanno male tra loro…».

Penso a Dante, che in paradiso si fa investire dalla pioggia luminosa che viene dall’alto, senza opporre resistenza
Poi la necessità di guardare in faccia il male, di nominarlo manzonianamente, ossia i demoni, i fantasmi, il minotauro, i mostri. Mostri che possono essere anche creature quasi mitologiche: la “creatura della cupa”, una bambina pesantissima, perché è il peso della sua ombra a renderla così pesante. Anche se Perseo per guardare in faccia la medusa e non esserne pietrificato usava uno specchio. Così come per osservare una eclissi abbiamo bisogno di un vetrino, di occhiali da saldatore. Lo specchio di Vinicio, i suoi occhiali da saldatore, è la scrittura. Poi la centralità del viaggio: un reportage di viaggio tra Trieste e Taranto, tra Matera e Faenza, tra Avellino e Reggio Emilia, ma anche tra la Sardegna e le Americhe, e una visione geopolitica diversa e spiazzante della nostra penisola, dove la vera divisione non è tra Nord e Sud ma tra aree interne e coste e centri urbani.

Poi il senso del sacro: ogni cosa, ogni oggetto è se stesso ma anche altro, rinvia sempre ad un’altra dimensione, e perciò genera stupore. Qui c’è molto Pasolini, attratto dal “poco-razionale”. Ma soprattutto Carlo Levi, un intellettuale ebreo torinese che mandato in esilio in Basilicata lì rinasce al contatto con una civiltà magico-arcaica, pagano-cristiana. Però, come Levi, Capossela non è un critico reazionario della modernità, né ha nostalgia del Medioevo. Si tiene stretto all’illuminismo, ad una razionalità critica. Odia la “fiamma della semplificazione”, la ricerca del capro espiatorio, la rinuncia al pensieri critico. Poi l’amore per singole persone concrete, ritratte con esattezza e pietas: spesso figure minori, lievemente appartate, o anche figure popolari ma sempre ai margini. Qualcuno ha detto che non si può amare l’umanità, o gli oppressi, o i dannati della terra (entità astratte), ma solo individui concreti. Qui ci imbattiamo in due attori straordinari, Bekim Fehmiu e Enrique Irazoqui, e poi in un musicista eccenrico e ribelle come Enzo Del Re, “monaco dell’anarchia”, che voleva essere pagato a ore come un metalmeccanico o anche Matteo Salvatore. Inoltre Carmelo Magro, il maestro della banda di Scicli, che suonerà in una chiesa, dove un crocifisso era stato messo per terra e coperto con un panno come dopo un incidente stradale.

Poi l’attrazione per il mondo animale, così vicino a noi e pure così misterioso, ad esempio per il porco, allevato al solo scopo di essere mangiato, o la corsa della giraffa. Gli animali, lungi dall’essere una forma di vita inferiore, non temono la morte e stanno già in Dio… L’inno all’anarchia, all’ammutinamento, alla rivolta, ma anche l’utopia dell’inutile e del gratuito, l’elogio della lumaca, animale inconsapevolmente sovversivo. Si potrebbe continuare a lungo. Ma c’è un passaggio che potrebbe riassumerlo. Quando si sofferma sul folk e scrive che «i canti sociali sono spesso ballabili», il canto di lotta o di lavoro o di protesta si fonde sempre con i ritmi della canzonetta di successo, i canti anarchici non hanno musicalmente forme diverse dalla musica da ballo…. Ed è nelle melodie del folk che attecchiscono le coscienze. Ecco, del libro di Capossela mi resta il ricordo di una melodia antica, di una musica a volte ballabile e altre volte dissonante, semplice e raffinata, che ci invita a rispondere all’appello terribile ma forse salvifico dell’eclissi.