Quest’anno, tutto dovrebbe indurci a evitare ogni celebrazione rituale del 2 giugno. Viviamo un tempo straordinario, refrattario a ogni finzione, perché la durezza della realtà non ammette infingimenti. E dunque la memoria della nascita della Repubblica non può risolversi nella contemplazione idealizzata di un’epoca d’oro, depurata della complessità che ogni vicenda storica porta con sé. Si farebbe un torto a chi ne è stato protagonista se si tradisse questa consapevolezza. Il referendum per la scelta tra monarchia e repubblica e l’elezione dell’Assemblea costituente hanno rappresentato sicuramente un enorme fatto collettivo di rinascita e, comprensibilmente, hanno attinto a una dimensione simbolica.

Ma un paese che sta faticosamente uscendo, oggi come ieri, da una vera e propria guerra, combattuta, questa volta, contro un nemico invisibile e senza il fragore delle armi, non può limitarsi a questo. Del resto, menzionando un dato tanto evocativo quanto certamente parziale, oggi l’Italia si trova ad aver raggiunto il picco più alto del proprio debito pubblico, coincidente, forse non a caso, con quello del 1919, alla conclusione del conflitto mondiale che ha dato inizio al “secolo breve”. Le tragedie non lasciano nessuno spazio per una contemplazione inerte e nostalgica del passato. Impongono una reazione e rimandano inevitabilmente a un bilancio. E oggi più che mai questo bilancio è necessario. Non per abbattere simboli, riesumando antichi conflitti ideologici; quanto per prendere consapevolezza che la memoria della nascita della Repubblica non basta, da sola, per rifondare le ragioni della convivenza. Ciò vale per il significato storico e per il significato politico-istituzionale di quell’evento, che va storicizzato e collocato nella prospettiva dinamica che caratterizza l’evoluzione delle vicende umane.

Sul piano storico c’è una domanda elusa, un convitato di pietra. Riguarda il modo in cui la coscienza nazionale si è posta rispetto al passato che ha preceduto l’avvento della Repubblica. Rosario Romeo, in un saggio del 1970, intitolato Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, denunciava molto crudamente la “frattura” rappresentata dal 1945, divenuto una sorta di spartiacque tra la memoria dimenticata del processo di unificazione nazionale e il nuovo inizio, imbarazzato dal proprio passato. Questa cesura, simboleggiata anche dal vero e proprio oblio di ogni riferimento pubblico ad eventi precedenti, quali, ad esempio, la data dell’unificazione nazionale (quanti italiani oggi sanno cosa rappresenti il 17 marzo?), ha reso monca la coscienza nazionale, ha fatto perdere il senso della durata dei processi e ha sovraccaricato il 2 giugno di un significato palingenetico che si è dovuto fare carico di concentrare, per intero, in quel singolo evento, la funzione di edificazione dell’identità nazionale. Non c’è da stupirsi allora che tale identità ci appaia ancora oggi, dopo 160 anni dal citato 17 marzo 1861, priva della profondità e della densità che si riscontra in altri paesi. E non sorprende che, per dirla con Romeo, il “parziale rifiuto della storia nazionale” abbia avuto un impatto fondamentale “nel quadro della vita culturale e, anzi, della vita politica e morale dell’Italia odierna”.

Se questo, dunque, è un buon motivo per non commettere lo stesso errore con il 2 giugno (immaginando polemicamente di sostituirlo nel futuro con un altro evento, altrettanto palingenetico, che azzeri il passato) non si può e non si deve rinunciare alla necessità di ricucire la storia patria presente con ciò che l’ha preceduta, guardandola nel suo respiro complessivo senza sconti ma anche senza oblio. La pretesa di schiacciare e risolvere in un singolo evento, pur fondamentale, come la fondazione della Repubblica, tutto il patrimonio della coscienza nazionale, ha avuto inoltre l’effetto di riverberarsi anche sugli assetti politico-istituzionali stabiliti dall’Assemblea costituente, trasformando la Carta costituzionale in una sorta di sacra reliquia consegnata a una eternità atemporale. Così, di fronte alle inevitabili esigenze di una realtà ormai lontana anni luce dal contesto del dopoguerra, piuttosto che riformarla, per le classi dirigenti è stato più facile eluderla, continuando a intascare i dividendi retorici del mito. Ma fissità storica e fissità istituzionale non possono essere il lascito del 2 giugno. Lo svuoterebbero in una necrosi ineluttabile.

Nel contesto della svolta epocale che la “guerra” pandemica ci ha imposto, dovremmo allora pensare a questo anniversario, sfrondandolo di ogni orpello celebrativo e riconoscendo in esso la “pietra di inciampo” delle nostre grandezze e delle nostre contraddizioni. Solo con un atteggiamento adulto si può prendere in mano la responsabilità del futuro che tocca a ogni generazione. In questo modo onoreremmo veramente quei padri costituenti che ci consegnarono la Carta insieme alla responsabilità generazionale di custodirla e cambiarla, a seconda delle necessità dei tempi nuovi. Come disse Meuccio Ruini, poco prima della votazione finale, il 22 dicembre 1947: «Questa Carta che stiamo per darci è, essa stessa, un inno di speranza e di fede. Infondato è ogni timore che sarà facilmente divelta, sommersa, e che sparirà presto. No; abbiamo la certezza che durerà a lungo, e forse non finirà mai, ma si verrà completando e adattando alle esigenze dell’esperienza storica.

Pur dando alla nostra Costituzione un carattere rigido, come richiede la tutela delle libertà democratiche, abbiamo consentito un processo di revisione, che richiede meditata riflessione, ma che non la cristallizza in una statica immobilità. Vi è modo di modificare e di correggere con sufficiente libertà di movimento. E così avverrà; la Costituzione sarà gradualmente perfezionata; e resterà la base definitiva della vita costituzionale italiana. Noi stessi – e i nostri figli – rimedieremo alle lacune e ai difetti, che esistono, e sono inevitabili». Non di statica e contemplativa immobilità abbiamo bisogno, dunque, ma di meditato cambiamento. E, forse, dopo 75 anni, la meditazione è durata a sufficienza.