Cosa si deciderà al G7 di Borgo Egnazia? È difficile dirlo. Forse ben poco. Perché il summit pugliese arriva in uno dei momenti più caotici della politica mondiale e con gli invitati che appaiono sempre più deboli. Un mondo in crisi continua, con focolai di guerra ovunque, e con un Occidente che deve necessariamente fare i conti con un mondo che sta cambiando. E che lo fa non solo velocemente, ma anche nel modo non voluto né compreso da gran parte dell’establishment che si riunisce nel resort di Fasano. I sette (Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti) sono consapevoli che le sfide a cui devono dare risposta non passano più nelle loro uniche mani.

E lo dimostra il fatto che, come accade ormai da anni, a questi summit partecipano capi di Stato e di governo di altre nazioni ritenute essenziali. Non si tratta di cortesia diplomatica. Quei sette grandi della Terra sono infatti importanti, certo, ma sicuramente non decisivi. Cina, India, Russia, ma anche le potenze arabe o la Turchia rappresentano protagonisti sempre più naturali della politica mondiale. E così il G7 rischia di diventare un qualcosa di molto simile al G20, ma senza i rivali sistemici del blocco occidentale. Paesi che di fatto incidono tanto quanto l’Ovest sui destini delle grandi crisi di cui il G7 deve discutere. E forse anche più dei suoi membri. Il tema è stato snocciolato da esperti, osservatori, critici e analisti. E quello che ormai appare chiaro più o meno a tutti – forse meno ai Sette – è che quanto dichiarato in questi summit non può rappresentare una rivoluzione, ma solo una conferma di roadmap già scritte in altre sedi.

La guerra in Ucraina è un’invasione scatenata da Vladimir Putin e con una resistenza sostenuta dagli Stati Uniti e dagli alleati atlantici. Ed è evidente che il G7 non può fare altro che confermare quanto deciso a Washington e Bruxelles. “Ogni incontro serve a dare all’Ucraina nuove opportunità di vittoria. Sono grato a tutti i nostri partner”, ha scritto Volodymyr Zelensky su X. Ma le vere svolte, si sa, avvengono in separate sede, dal congelamento degli asset russi all’invio delle armi a Kiev così come, nelle scorse settimane, il via libera a usare le armi occidentali in territorio russo. E tutti i tentativi di mediazione (più volte naufragati) avvengono ormai al di fuori della cerchia dei sette, dalle monarchie arabe alla Santa Sede, dalla Cina alla Turchia.

La guerra nella Striscia di Gaza, che dal 7 ottobre incendia il Medio Oriente, è un conflitto che non può essere deciso senza l’approvazione di Israele e senza il lavoro dei Paesi mediorientali, capaci di incidere (loro sì) sui desiderata di Hamas e della sua leadership nascosta a Gaza o ben inserita a Doha. Gli Usa, così come l’Europa, hanno dimostrato una certa inefficacia rispetto a questo conflitto. E nella bozza finale si ribadisce quanto già noto: il sostegno agli sforzi americani per la tregua, la preoccupazione per il fronte libanese, la condanna dei coloni e la richiesta a Israele di evitare l’offensiva a Rafah, e infine una soluzione a due Stati con l’unione di Gaza e Cisgiordania sotto l’Anp. Temi che però passano, come detto, per il placet di altre piattaforme e di altre grandi potenze.

E dell’Africa non si può certo discutere senza che vi siano i principali leader del continente e soprattutto Putin e Xi Jinping, che da tempo muovono i loro fili tra Nordafrica e Sahel e che senza dubbio hanno gli strumenti per gestire crisi finanziarie, conflitti, ribellioni e golpe che attanagliano l’Africa. Mentre le bandiere dell’Europa e degli Usa sono ammainate e i legami con l’Occidente ai minimi termini. Di fronte a queste sfide, la speranza è che esca qualcosa di concreto. Sulle possibilità che ciò accada, però, restano forti perplessità. Lo si intuisce anche dalla debolezza dei leader che si riuniscono a Borgo Egnazia: da Joe Biden, che ha saltato la cena organizzata dal presidente Sergio Mattarella perché affaticato, a Emmanuel Macron, da Olaf Scholz a Rishi Sunak. Leader travolti da tensioni interne, voti contrari, fragilità dei rispettivi governi, e che ora devono decidere su un mondo che ha già fatto capire di guardare in un’altra direzione rispetto alla loro.

Ieri è stata la volta di Zelensky, che spera che l’intesa sugli aiuti a Kiev (50 miliardi derivanti dai profitti degli asset russi congelati) dia nuovo ossigeno a un paese invaso e colpito dalla furia di Mosca. Ieri fonti Usa hanno parlato di un accordo politico di massimo livello. Ma è sul campo di battaglia e nei meandri della diplomazia che si deciderà il destino di Kiev. E mentre Biden è impegnato in Puglia, la Marina russa si è affacciata a Cuba facendo capire agli Stati Uniti di poter ancora arrivare fino al loro “cortile di casa”.

Oggi è la volta di Papa Francesco, che oltre agli incontri bilaterali, parlerà di Intelligenza Artificiale e dovrà soprattutto gestire il dossier “aborto”, su cui ieri si è arenato il dibattito riguardo il testo finale del summit e quella parola che non si vuole inserire nella dichiarazione. Dalla Casa Bianca è arrivato un messaggio chiaro: Biden “parla sempre di diritti” e “non cambia il messaggio in base all’interlocutore”. L’avvertimento nei riguardi del testo finale appare cristallino. Ma è evidente che il G7 potrà incidere ben poco sul diritto all’aborto nel mondo, tanto più nei Paesi estranei alla cerchia dei sette. Allo stesso tempo, invece, è chiaro che il dibattito si accenda su un tema lontano dalla geopolitica in senso stretto. Segno che su conflitti, crisi umanitarie e questioni finanziarie, ciò che è deciso è noto a tutti. Basterà metterlo, ancora una volta, nero su bianco.