Il risultato delle elezioni municipali che si tengono oggi in Georgia è praticamente già scritto. Si prevede infatti che i tre quarti dei 64 consigli municipali, per 3,5 milioni di elettori, andranno ai candidati di Sogno georgiano.

Sarà un plebiscito per il partito filo-russo. Unica incognita è Tbilisi, dove il sindaco uscente è Kakha Kaladze (noto in Italia per essere stato la colonna portante della difesa del Milan), candidato per il terzo mandato per Sogno Georgiano, se la gioca con Zurab Makharadze, in corsa per l’estrema destra, e Irakli Kupradze, della coalizione Lelo/Strong Georgia. Nella Capitale l’opposizione ha una presenza compatta. Inoltre, da ormai trecento giorni, le strade della città sono testimoni della protesta continua e pacifica di chi non si arrende a una triste verità. E cioè che la Georgia è un’Ucraina riuscita. Questa è la chiave di lettura che potrebbe dare Putin. Nel suo progetto ideologico-nostalgico di ricostruzione dell’impero sovietico, l’espansione nel Caucaso è andata a buon fine. Lo stesso non si può dire lungo la direttrice Est-Ovest. Tant’è che, nel 2008, il conflitto perché Mosca ottenesse di fatto il controllo di Ossezia del Sud e Abcasia si risolse in poche settimane. Mentre per piegare la resistenza di Kyiv all’armata russa non sono bastati undici anni.

Perché questa differenza? Lo si è detto più volte, la Georgia è lontana. Mentre il rombo del cannone che spara sulle pianure ucraine risuona a Varsavia e Tallinn. Nell’interpretazione storica di noi europei, per quanto approssimativa, il Caucaso costituisce il giardino di casa dei russi. Zaristi e sovietici. È lì che l’orso russo può estendere la propria area di influenza e così colonizzare le popolazioni in santa pace. Non è un caso che oggi la società georgiana sia spaccata metà. Il sentimento filo-russo è legato a quello del quieto vivere. Soprattutto con le cronache ucraine alla mano. Piuttosto che vedere le nostre città devastate dai droni e i giovani mandati a morire in trincea, molti in Georgia hanno scelto la sottomissione travestita da pace.

Non è così per l’intero Paese. Altrimenti non si spiegherebbero le manifestazioni. Il problema è che, dopo quasi un anno di sit-in, non si è arrivati a un dunque. L’opposizione è spaccata su questo voto. C’è chi ha preferito boicottarlo, spinto dal disincanto per cui le urne sono pilotate e il risultato è stato già deciso. Al Cremlino. L’accusa che si rivolge al Presidente della Repubblica, Mikheil Kavelashvili, è di aver indetto le elezioni soltanto due mesi fa. Un tempo troppo ridotto per organizzare una campagna elettorale come si deve.

Tuttavia, c’è chi tra gli oppositori ha scelto la strada della tenacia. Anche di fronte alla realtà più plumbea non ci si può arrendere. Due strade diametralmente opposte che, per forza di cose, hanno portato acqua al mulino di Sogno georgiano e alla sua narrazione quale soluzione più ragionevole e pacifica per il Paese. Del resto, i sintomi di una deriva autoritaria non sono neanche difficili da rintracciare. Da quando è presidente – vittoria peraltro raggiunta non nel più trasparente dei modi – Kavelashvili ha firmato una serie di leggi di chiaro stampo illiberale. Ultima tra le tante, quella sugli “agenti stranieri”, di maggio 2024, volta a colpire società civile e media indipendenti.

Ed è da inquadrare in questo provvedimento il caso non ancora chiaro di Giacomo Ferrara, bloccato alla frontiera tra Armenia e Georgia mentre si recava a Tbilisi per seguire le elezioni del 4 ottobre, per “La Ragione”. «È stata una sorpresa – commenta il reporter raggiunto al telefono mentre è appunto in Armenia – ho attraversato quel punto di frontiera tante altre volte. Ero provvisto di una lettera di incarico del mio direttore. Quindi non era possibile fraintendere il motivo del mio viaggio. Fatto è che mi è stata notificata una sanzione di 5.000 lari». Multa neanche troppo leggera. Si tratta infatti di 1.500 euro. E sta parlando di un Paese dove il salario medio è intorno ai 700 euro.

Il fermo di Ferrara potrebbe essere legato alla sua presenza, da cronista, a una manifestazione mesi fa. «Però si tratta di supposizioni. Le spiegazioni che mi sono state date erano abbastanza reticenti». L’episodio è diventato anche oggetto di un’interrogazione parlamentare che il senatore di Azione, Marco Lombardo, ha indirizzato al ministro Tajani. «La vicenda conferma la deriva autoritaria del regime georgiano e testimonia la necessità di un impegno politico e non solo diplomatico da parte dell’Italia», ha detto Lombardo. Film già visto, diciamo noi, nel perfetto stile della cinematografia sovietica.