"Su dazi Trump ha ceduto alle lobby"
Federico Rampini: “Cina primo partner dell’Europa solo nelle favole. Ucraina? Con le terre rare gli Usa si sono vincolati”
Esce in libreria per Strade blu di Mondadori “Il gioco del potere”, l’ultimo libro di Federico Rampini, scritto con il figlio Jacopo. Per la prima volta, un romanzo: “Un modo libero per parlare di geopolitica. Due generazioni, due Usa”

Federico Rampini – il giornalista che ha previsto i grandi cambiamenti del mondo nuovo – ha scritto un libro a quattro mani con suo figlio Jacopo. Dopo tante inchieste, saggi, reportage, un romanzo. Gli chiediamo com’è stato cimentarsi con la narrativa, in un tempo in cui la realtà supera spesso la fantasia.
«Una bella sfida. Con questa fiction siamo su un terreno che mi è familiare: la geopolitica, la competizione tra America e Cina, la guerra tecnologica che rischia di degenerare in un conflitto vero, l’invasione di Taiwan, la nostra eccessiva dipendenza dai microchip, il ruolo dell’intelligenza artificiale. Da un lato è una liberazione, poter trattare questi temi senza essere troppo condizionato dalla cronaca quotidiana, guardando al lungo periodo, alla Storia con la maiuscola. D’altro lato non bisogna tradire un dovere di verosimiglianza, di realismo».
Nel rapporto padre-figlio, che è in parte necessariamente anche conflitto, si può leggere il paradigma del confronto con due fasi del tempo, con due tipi di Occidente, di America con due Weltanschauung diverse?
«Le Americhe del padre e del figlio in questo romanzo sono molto diverse, perfino incompatibili. C’è il Sogno americano delle origini, basato sulla meritocrazia, poi la woke culture, poi il trumpismo e il post-trumpismo, che proviamo a immaginare. C’è anche un po’ di autobiografia. Il mio personale Sogno americano iniziò con un viaggio coast-to-coast del 1979, Jacopo ha avuto un’adolescenza californiana a partire dal 2000».
Il Gioco del potere è un lavoro originale scritto a quattro mani con suo figlio. Chi dei due ha dettato la linea, chi ha inventato il plot narrativo?
«Jacopo si è concentrato sui caratteri dei personaggi e sulla dinamica dei loro conflitti: una Succession all’italiana, battaglia dinastica dentro un’azienda familiare, rivalità e gli scontri di potere, rapporto padre-figlio. Io ho curato lo scenario che fa da sfondo: geopolitica, economia, tecnologia».
Come vedono il mondo che cambia, le nuove generazioni? Cosa li preoccupa, cosa li affascina?
«Non si può generalizzare. Tra i giovani vedo differenze enormi. Da un paese all’altro, per esempio. Una cosa che mi colpisce dei giovani americani è il benessere: i ristoranti più cari di Manhattan sono affollati di trentenni, hanno un potere d’acquisto notevole. Tutt’altro scenario in Europa. Idem per il potere: nella Silicon Valley, nell’industria Big Tech, comandano i giovani, il contrario della gerontocrazia spesso denunciata in Italia. Poi ci sono le differenze tra i sessi. In America alle ultime elezioni i giovani si sono spostati a destra, ma soprattutto i maschi: fra i tanti ingredienti del trumpismo c’è anche la rivendicazione di un ruolo maschile. Tra le poche costanti, a livello globale: sotto ogni latitudine, in ogni civiltà, a prescindere dai livelli socio-economici, le nuove generazioni si sposano meno e fanno meno figli. Sembrano aver deciso che la specie umana non merita di essere riprodotta».
Magari ci ripenseranno, crescendo. Trump per primo ci ha abituati al passo del gambero. Tornerà indietro anche sui dazi?
«Ha già operato una ritirata in favore della versione più tattica e strumentale dei dazi: come strumento di pressione e di contrattazione. Poiché il suo potere negoziale è elevato, sta già ottenendo molto, vedi gli acquisti di gas e armi promessi dall’Europa. In Cina Xi Jinping fa la faccia feroce ma sottobanco ha cominciato a ipotizzare concessioni, perché la sua economia è più debole di quella americana. La ritirata tattica di Trump è il risultato di due pressioni, quella dei mercati e quella delle lobby economiche. A tutti gli effetti possiamo aggiungere queste forze economiche ai contropoteri della Repubblica americana che correggono gli eccessi».
Si è rotto qualcosa nell’equilibrio dell’amministrazione Trump, iniziano le epurazioni. Si allontana Musk. Prevede un giro di boa, un cambio di rotta per i mesi a venire?
«Non è mai esistito un “equilibrio” dentro l’Amministrazione Trump, il caos e l’instabilità gli sono congeniali. In quanto a Musk, nell’opposizione democratica e in molti media italiani è stato oggetto di un teorema assurdo: l’Oligarchia. Chi ha teorizzato per mesi che l’America non era più una democrazia bensì un regime autoritario in mano a un piccolo gruppo di capitalisti, ha raccontato sciocchezze che si sono dissolte rapidamente. I presunti oligarchi hanno subito la guerra dei dazi come una catastrofe, hanno perso soldi. Chi li descriveva onnipotenti, o era ignorante o era fazioso. Musk si è scontrato con un potere forte, quello della burocrazia, che per il momento sembra prevalere. Il suo sogno di eliminare sprechi, spese inutili, rendite parassitarie, per adesso è frustrato dalle lobby del pubblico impiego che anche in America sono potenti. Ciò che sta accadendo rientra negli arbitraggi continui che Trump deve fare tra la sua anima populista – che lo spinge verso il protezionismo per soddisfare l’elettorato operaio – e i numerosi interessi capitalistici che lo vorrebbero riportare nell’alveo dell’establishment repubblicano».
La firma del contratto con l’Ucraina sulle terre rare è un buon accordo?
«A giudicare dalla furiosa reazione di Putin, direi di sì. È un accordo che torna a vincolare l’America al futuro dell’Ucraina. Genera un interesse economico americano a proteggere quel paese. Crea un fondo per la ricostruzione, a cui Trump può contribuire anche con aiuti militari. Questo accordo va inserito in un contesto più generale, che si capisce guardando al lavoro del senatore repubblicano Lindsey Graham (un alleato di Trump) per far passare al Congresso nuove sanzioni contro la Russia. È un revival di falchi tradizionali, una categoria in cui includo il segretario di Stato Marco Rubio. Il partito repubblicano non ha una tradizione russofila, a differenza di certe destre europee, quindi ha subito con insofferenza la simpatia di Trump verso Putin».
Può esistere un mondo «diversamente globalizzato», dove la Cina diventa il primo partner commerciale dell’Europa?
«Nel regno delle favole per bambini, sì. Oppure nella propaganda di Xi Jinping. La Cina ha un approccio predatorio alla globalizzazione. Per decenni ha costruito il suo modello di sviluppo su questi principi: repressione-compressione dei salari e dei consumi interni, furto sistematico di segreti industriali occidentali, costruzione di posizioni dominanti, e smaltimento di colossali eccedenze sui mercati esteri. Se gli europei dopo aver subito la distruzione della propria industria solare e dell’automobile vogliono continuare così, si accomodino».
L’elezione di Carney e la vittoria dei laburisti in Australia indicano che il mondo anglosassone sta prendendo le distanze da Trump?
«In Canada le provocazioni e le prepotenze di Trump hanno aiutato Carney. In Australia chi ha tentato d’importare il trumpismo ha perso. Un segnale in senso contrario invece è stata l’avanzata di Farage alle amministrative in Gran Bretagna. Io distinguerei fra il trumpismo dichiarato, etichettato come tale, che si esporta male, e la sostanza di certe sue posizioni (controllo dell’immigrazione, politiche energetiche realistiche, rivolta contro la cultura woke e l’agenda Lgbtq+) che invece contagiano e contaminano anche molte forze moderate o di centro-sinistra. Inoltre vedo un pericolo quando l’Europa pensa di arginare l’estrema destra ricorrendo alla censura e a leggi liberticide».
L’Europa è un piccolo dinosauro erbivoro in un mondo di predatori carnivori. Da quando Macron le Draghi hanno spronato a correre, non è cambiato niente. Serve un cambio di passo nella competitività, nell’autonomia energetica, nella difesa. Lei crede che l’Ue possa evolvere o che finirà per soccombere ai predatori?
«In realtà qualcosa sta cambiando, nel paese che conta più di tutti, la Germania. Il neocancelliere Friedrich Merz cerca di traghettare la Germania verso un nuovo modello: vuole renderla capace di difendersi anche se dovesse venire meno la protezione americana; e vuole alimentare la domanda interna per cessare di dipendere dai mercati altrui. Se ci riesce l’Europa intera ne beneficerà. Tanto più che a Bruxelles comanda una sua compagna di partito».
Entriamo nel vivo del Conclave. Quanto può incidere il Pontefice nelle grandi linee di politica internazionale, nella sensibilità dell’opinione pubblica?
«Stalin ebbe una battuta memorabile, e sprezzante, sulle divisioni blindate del papa: considerava irrilevante una potenza spirituale priva di esercito. Poi però un papa polacco alleato con Ronald Reagan diede un contributo al crollo finale dell’Unione sovietica. Il soft power della religione ha sempre avuto ripercussioni geopolitiche. Papa Francesco ebbe una stagione di forte intesa con Barack Obama, pessimi rapporti con Trump, ma le sue parole più dure all’inizio della guerra in Ucraina le rivolse contro la Nato guidata dal cattolico Biden. Il papato di Bergoglio ha portato la Santa Sede a schierarsi con il Grande Sud globale, fino ad abbracciarne le visioni più anti-occidentali e anti-capitalistiche. Il bilancio è discutibile. Papa Francesco piacque ai progressisti occidentali, ma proprio nel Grande Sud globale la sua chiesa ha perso influenza a scapito di due formidabili concorrenti: un Islam ancora più anti-occidentale; e gli evangelici pentecostali che invece approvano l’economia di mercato e lo sviluppo economico».
Dopo questo, scriverà un altro romanzo? Ha già in mente un nuovo progetto, una prossima idea?
«Prima di tutto m’interessa il progetto di Jacopo di trarre da questo romanzo una sceneggiatura, cinematografica o televisiva. In quanto a me, sono appena ritornato in Giappone, dal quale mancavo dalla pandemia, e sento il bisogno di occuparmi nuovamente di Estremo Oriente. Sperando che non si avveri la profezia distopica del nostro romanzo su Taiwan…».
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