Una tregua come anticipazione della pace? Hanno mille chiavi di lettura i tre giorni di stop agli scontri dichiarati da Putin per l’ottantesimo anniversario della vittoria dell’Unione sovietica sul nazifascismo. Dal 7 all’11 maggio, le armi russe cesseranno di sparare. È una mossa che può essere vista come un gesto di apertura del Cremlino dopo l’incontro Trump-Zelensky a San Pietro. Messo alle strette dal Presidente Usa, può essere che lo zar abbia deciso di abbassare i toni. Può essere. Perché è altrettanto plausibile che voglia evitare brutte notizie dal fronte, nel mentre che si guarda la parata in Piazza Rossa.

Putin vuole davvero la Pace?

La tregua è uno stop and go per definizione. Unilaterale e voluta più per ragioni pratiche che per reali intenzioni a trattare. Da qui alcune domande: Putin vuole davvero la pace? Quanto gli conviene? A chi, invece, torna comodo una Russia in guerra? Dall’annessione della Crimea nel 2014, lo zar ha più volte promesso piani di pace che poi è stato il primo a violare. Gli accordi di Minsk I e II (settembre di quell’anno, febbraio 2015) sono saltati per la violazione del cessate il fuoco da parte dei separatisti filo-russi. Altrettanto le trattative portate avanti dall’Occidente negli anni successivi. Perfino con l’elezione di Zelensky, Putin si era esposto parlando di opportunità di pace. Era il 2019. Nel febbraio 2022 però, si è arrivati all’escalation che sappiamo. Senza perdersi nell’esegesi delle promesse da marinaio, basta ricordare quanto detto dallo zar a fine 2024: “La Russia è pronta a negoziare”. E poi l’invio dei suoi uomini a Riyadh per l’incontro con la delegazione Usa, il mese scorso. Materiale sufficiente per rendere Trump più diffidente. Invece, solo in questi ultimi giorni Potus sembrerebbe averlo capito. Condizionale obbligatorio.

C’è del risentimento

Se poi non bastano questi precedenti per convincerci che, no, Putin di fare la pace in questa maniera non ci pensa nemmeno, è utile rimandare all’ideologia che sorregge il regime. Nostalgia e revanchismo sono le colonne portanti. Vladimir Putin e i suoi più stretti collaboratori fanno parte di quella generazione che più ha pagato il crollo dell’Unione sovietica. Una nomenklatura di secondo livello, testimone del disfacimento di un impero che era destinato a controllare. C’è del risentimento in quegli uomini, che non hanno potuto replicare le gesta dei padri. Dalla rivoluzione d’ottobre allo Sputnik, passando ovviamente per l’eroismo di Stalingrado e di tutta la guerra patriottica. L’inquilino del Cremlino oggi – in realtà da un quarto di secolo – pretende di proseguire quella storia. Affinché la Russia torni a essere Santa e Madre, non c’è alternativa a una guerra. Un conflitto che riporti sotto il controllo di Mosca tutti i Paesi che all’Urss hanno voltato le spalle, ma dove ancora è forte una minoranza linguistica, culturale e religiosa russa. Ecco, in quest’ottica, immaginiamoci la magra figura che Putin potrebbe fare il 9 maggio, di fronte ai vegliardi reduci della Seconda guerra mondiale. Come lo guarderebbero gli ultimi sopravvissuti all’assedio di Leningrado, se giusto quel giorno agli ucraini andasse bene un raid? A questa visione delle cose, si aggiungono tattiche sul terreno di altrettanta importanza. Per aprire i negoziati in suo favore, alla Russia serve arrivare più in là con il posizionamento al fronte. Per poter dire: da qui non mi ritiro.

Le richieste del ministro degli Esteri russo Lavrov sono state chiare: riconoscimento internazionale del possesso russo della Crimea, Sebastopoli, Donetsk, Lugansk, Kherson e Zaporizhzhia. Senza queste non c’è pace. Il discorso della convenienza, però, travalica le mura del Cremlino. Mosca impegnata in una guerra è una superpotenza nucleare che non può impegnarsi in altre crisi e la cui economia ha bisogno di continue forniture. Ecco perché è allarmante sì l’impiego di soldati nordcoreani sul fronte ucraino, ma sarebbe più importante preoccuparsi degli spazi di manovra che questo conflitto offre alla Cina. Su Taiwan, per esempio. Se fossero esauditi i desiderata di Lavrov, sulla Crimea riconosciuta come Russia dalla comunità internazionale, Xi Jinping avrebbe un valido precedente per poter rivendicare lo stesso sull’isola di Formosa.

Ci sono i Brics poi, in cui la Russia ha inevitabilmente perso posizioni. Uno smacco, questo sì, per Putin, costretto ad affidarsi alle economie di pace e fiorenti di Cina, Brasile e India per poter nutrire la sua guerra. Infine la questione petrolio. Molto intrecciata, va detto. È noto l’obiettivo di Trump di tirar giù il prezzo. L’eventuale calo a 50 dollari al barile – ieri il Brent era sopra i 65 – strozzerebbe le entrate russe. Servono 62 dollari al barile perché i soldati possano continuare a combattere. E alle loro madri sia garantita una pensione. Con un crollo, però, a rimetterci sarebbero sia il Cremlino sia gli altri produttori. Molti dei quali, per esempio nel Golfo, sono nostri fornitori. Se dovessero cadere vittime collaterali di un piano di pace, in ogni caso poco stabile, potrebbero risentirsi. Quindi attenzione. Meglio non esagerare con l’ottimismo sulla tregua della vittoria proclamata dallo zar.