A non funzionare è la politica
Il referendum riconnette il popolo alla sovranità ma i partiti latitano e il quorum resta un miraggio
La democrazia diretta è una boccata d’aria, va oltre la vittoria del sì o del no: crea dibattito e mobilita le comunità. Eppure le formazioni politiche si nascondono, non prendono una posizione netta e penalizzano la partecipazione

Vero è che non c’è nulla di più fluido e imprevedibile della scena politica italiana, e che la misura delle procedure che conducono al voto referendario poco si addice all’“immediato” dell’azione politica. Per cui ciò che poteva essere vivo nella pubblica opinione all’inizio della partita, quando si raccoglievano le firme, potrebbe apparire del tutto evaporato nel momento elettorale.
Ma è anche vero che i cinque quesiti che interpelleranno gli italiani nella seconda domenica e nel secondo lunedì di giugno appaiono, nonostante le probabili meteorologie canicolari, un po’ un risveglio “a freddo” della democrazia diretta. Intanto per i contenuti: sui cinque referendum, quattro sono diretti ad abolire norme lavoristiche, in larga parte introdotte col Jobs Act di Renzi, e uno tende a modificare la legge sulla cittadinanza rendendone meno oneroso l’accesso fuori dallo ius sanguinis.
Si tratta, come spesso accadeva nella lunga tradizione radicale, di tematiche portatrici di tecnicalità, la cui percezione per la grande platea degli elettori non appare d’impatto immediato. Ma c’è di più: tranne la Cgil di Landini, che trascina (con minore slancio, sembrerebbe) anche la Uil ma non la Cisl, +Europa e 3-4 sigle che sembrano sospinte ai giorni nostri da un passato soffuso di romanticismo da Prima Repubblica (Rifondazione comunista, I Radicali italiani, PSI), non si scorgono forze trainanti tra le grandi formazioni politiche odierne.
Tanto per capirci: il referendum abrogativo previsto dai costituenti per correggere effetti indesiderati della democrazia delegata, in realtà, ha quasi sempre confermato l’orientamento prevalente delle forze politiche sostenitrici oppure oppositrici della scelta referendaria, diremmo, quasi a prescindere dai contenuti, condannando spesso all’invalidità della consultazione quando sono rimaste silenti o apparse agnostiche. Certo, contenuti di immediata percezione (vedi i quesiti contro la privatizzazione dell’acqua del 2011, ultimo turno referendario a veder conquistare la maggioranza necessaria per la validazione) aiutano. Ma aiuta ancora di più l’avallo dei partiti: se qualcuno avesse dubbi basterebbe ricordare il referendum abrogativo del divorzio 51 anni fa, che approvò il mantenimento della legge Fortuna-Baslini con il 59,3% dei suffragi, a fronte del 40,7%, essendo quest’ultimo valore il frutto della confluenza dei consensi di solo due partiti, la Dc e il Msi (con qualche punticino percentuale perso rispetto al voto raccolto alle politiche), a fronte del resto del mondo politico, rappresentato dallo schieramento di tutti gli altri partiti divorzisti.
Al netto, dunque, dei contenuti – alcuni francamente condivisibili, come quello sulla cittadinanza – restano i dubbi sugli esiti politici di una consultazione che, tutt’oggi, non si proietta verso partecipazioni plebiscitarie, considerando anche una certa tiepidezza dell’opposizione. Solo tre anni fa, quasi negli stessi giorni di giugno previsti per il prossimo turno, si votò per cinque quesiti riguardanti la giustizia e la giurisdizione, promossi da 9 consigli regionali: l’affluenza superò di poco il 20%. Cosa può aver fatto immaginare ai promotori che sia mutato, dopo tre anni, l’afflato popolare alla partecipazione, proiettandosi verso il superamento del 50% necessario per validare la consultazione? Certo: ogni consultazione popolare porta con sé anche effetti collaterali che non si esauriscono con la vittoria del sì o del no. Può avere, infatti, l’obiettivo di mobilitare una comunità, di rinsaldarla nelle motivazioni intorpidite; può promuovere o riaffermare una leadership; può offrire un’importante esposizione mediatica, in genere negata alle formazioni minori.
Ci piacerebbe, però, pensare allo strumento referendario come al mezzo per riconnettere il popolo alla sua sovranità, soprattutto in un tempo in cui la rappresentanza democratica appare intrappolata da leggi elettorali ad uso dei capi-bastone e il Parlamento si inchina all’autorità legislativa assoluta dell’esecutivo, mentre venticelli trumpiani aleggiano sulle liberaldemocrazie. Allora un po’ di democrazia diretta, quella che fa coincidere l’obiettivo politico finale con l’impegno referendario, non potrebbe che aiutare.
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