Il commento
Chi vota più ai referendum: quorum sempre più a rischio, rivedere come coinvolgere i cittadini

Lo scorso 23 marzo, a Parigi, i cittadini sono stati chiamati a votare su una proposta ambiziosa: chiudere al traffico 500 strade per trasformarle in “strade giardino”, restituendole a pedoni, ciclisti e spazi verdi. Ha vinto il sì con il 66% dei voti. Ma ha partecipato solo il 4% degli aventi diritto. Che significato assumono questi dati? Sono sufficienti per parlare di partecipazione democratica alle scelte? La sindaca Hidalgo, promotrice della consultazione, ha avviato da tempo un percorso di trasformazione ecologica della città, con misure anche radicali. Ma quando a decidere è una quota così esigua di cittadini, possiamo davvero parlare di un mandato collettivo? O si tratta, piuttosto, di un gesto simbolico più che rappresentativo? La consultazione non prevedeva un quorum, non era vincolante e si è svolta in un contesto – lo segnalano molte cronache – caratterizzato da scarsa informazione e limitato coinvolgimento. Possiamo davvero definirlo un “referendum”? O sarebbe più corretto parlare di un sondaggio civico?
Referendum e partecipazione minima
Il punto non riguarda solo Parigi. Episodi simili, dalla Lituania alla Germania, fino a molte città americane, seguono lo stesso schema: partecipazione minima, scarso impatto pubblico, difficoltà a coinvolgere fasce ampie della popolazione. È il segnale di una crisi strutturale della partecipazione democratica. Negli ultimi anni, il ricorso a strumenti referendari o consultivi locali è stato spesso usato per provare a disinnescare conflitti tra interessi contrapposti: residenti e commercianti, automobilisti e ciclisti, sostenibilità ambientale e bisogni quotidiani. Ma una consultazione con il 4% di partecipazione può davvero rappresentare questa pluralità di esigenze? O rischia, al contrario, di irrigidire le contrapposizioni, dando l’idea che alcuni interessi vengano ascoltati e altri esclusi?
Come coinvolgere i cittadini
Il referendum, in casi come questi, smette di essere uno strumento democratico per comporre i conflitti. Non media: seleziona. Non rappresenta: semplifica. Ed è forse qui che si manifesta una fragilità più profonda. Se l’obiettivo è legittimare una scelta pubblica, possiamo accontentarci di un esercizio che coinvolge una quota minima della cittadinanza? E ancora: questa forma di delega rafforza davvero la decisione politica o la indebolisce, spostando la responsabilità dal decisore al “sentire” di una minoranza attiva? La consultazione è un modo per consolidare un percorso o per evitare il costo politico della mediazione tra interessi divergenti? Se fosse così, basterebbe un bravo amministratore del bilancio. Non un politico. Eppure, la consultazione può essere uno strumento utile, a patto che sia ben progettata: servono informazioni trasparenti, tempi adeguati, strumenti efficaci di coinvolgimento. Altrimenti rischia di diventare una scorciatoia per legittimare decisioni già prese, anziché un’occasione di confronto democratico.
Il vero tema non è se coinvolgere i cittadini, ma come farlo. Ha senso moltiplicare le occasioni di voto? O è meglio costruire spazi dove le persone possano discutere scenari complessi, esprimere priorità, valutare insieme gli impatti delle scelte? In tempi di trasformazioni profonde, la democrazia non si misura solo nei numeri, ma nella qualità del processo. Non basta chiedere un sì o un no: serve generare fiducia, chiarezza, corresponsabilità. Solo così la partecipazione può diventare leva di coesione, e non semplice esercizio di legittimazione.
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