Andare oltre la vendetta
Decreto Sicurezza, il prof Manes contro l’overdose punitiva: “Il nuovo menù politico-criminale: 2 nuovi reati al mese e celle che esplodono”

Lo hanno fatto davvero. Come efficacemente sottolineato nella delibera di astensione della Unione delle Camere Penali, “peggio del disegno di legge sicurezza c’è solo il decreto sicurezza”. Delle nuove norme appena entrate in vigore parliamo con il Prof. Vittorio Manes, ordinario di diritto penale nell’Università di Bologna e Direttore della rivista Diritto di difesa. Analizziamo con lui le ragioni di contrasto con il dettato costituzionale dei nuovi reati e la necessità della denuncia e dell’iniziativa dell’intera comunità dei giuristi.
Il recente susseguirsi di leggi “simboliche” che criminalizzano condizioni di disagio, l’immigrazione, forme di dissenso in nome di un’idea autoritaria dei rapporti sociali è qualche cosa di più del giustizialismo che abbiamo conosciuto in questi anni. Siamo di fronte a un nuovo e più aggressivo panpenalismo che conosce solo il carcere come sanzione?
Vino vecchio in otri nuove, direi, con qualche non trascurabile variante deteriore. Il nuovo menù politico-criminale propone ricette della tradizione rivisitate in salsa autoritaria, con un più generoso dosaggio degli ingredienti di sempre, e con una spolverata di diritto di polizia: basti pensare alla generosa espansione delle tutele penali per gli agenti di pubblica sicurezza, cui si consente anche di portare armi senza licenza, quando non sono in servizio, o all’estensione della liceità per operazioni sotto copertura dei servizi di sicurezza. Più in generale, dopo aver introdotto 48 nuovi reati in 2 anni, con una media di 2 nuovi reati al mese, ora si propone – dietro il passepartout della “sicurezza pubblica” – un “pacchetto” di 14 nuovi reati, e si inaspriscono le pene per 9 fattispecie già esistenti: dimenticando che “più diritto penale”, o “più carcere”, non equivale a “più sicurezza”, oltre al fatto che le statistiche non segnalano affatto particolari esigenze di sicurezza da controbattere. E già questo dovrebbe anche rendere evidente la mancanza di presupposti per la decretazione d’urgenza, che evidentemente annichilisce la dialettica maggioranza-minoranza e il ruolo del Parlamento, e che soprattutto in materia penale dovrebbe avere uno spazio limitatissimo, in chiave di ancor più stringente eccezionalità.
Come si spiega questa incessante corsa della politica al diritto penale? E che effetti ha sugli equilibri dello Stato di diritto?
È una corsa evidentemente illusoria, ingannevole e avulsa da ogni razionalità: oggi come ieri si continua a scommettere, con falsa ingenuità e chiare finalità politico-elettorali, sul diritto penale come panacea di tutti i mali, e sedativo “veloce e frugale” di ogni irritazione sociale, quasi che l’overdose punitiva fosse un rimedio efficace e a costo-zero. Ed invece non ha alcuna particolare efficacia, ed ha costi sociali altissimi: costi che si misurano, anzitutto, sul perimetro delle nostre libertà e dello Stato di diritto, che si restringe ad ogni nuova iniezione di penalità, restrizione che qui risulta particolarmente evidente a fronte di reati che comprimono libertà di riunione e libertà di espressione e anche il mero dissenso, criminalizzando sit-in e blocchi stradali, e persino la resistenza passiva in carcere. E costi che si misurano sui tassi di carcerizzazione, perché l’effetto di questa overdose punitiva avrà certamente ricadute in termini di ulteriore aumento della popolazione dei detenuti. Un assurdo, se solo si pensa che politiche penali ragionevoli dovrebbero andare in direzione ostinatamente contraria. Siamo tornati ai livelli precedenti alla sentenza Torreggiani, nella quale la Corte EDU, come noto, condannò l’Italia per la insostenibile situazione di sovraffollamento delle nostre carceri, dove la detenzione equivale di fatto ad un trattamento inumano e degradante. Abbiamo tassi medi di overcrowding del 130%, con punte molto superiori in taluni penitenziari. E questo stato di emergenza è testimoniato, drammaticamente, dal numero di suicidi: dopo il tristissimo record di 90 suicidi dello scorso anno, nei primi tre mesi del 2025 vi sono stati già 22 suicidi, con un trend che rischia di eguagliare, se non superare, l’anno passato.
Proprio la devastante condizione del carcere, non solo per il sovraffollamento, la tragedia dei suicidi, i continui ostacoli posti alla piena attuazione dell’art. 27 della Costituzione, sono il segno del salto di qualità di questa nuova strategia. Giovanni Fiandaca, in una sua recente rifl essione, ha esortato anche i professori ad essere protagonisti della denuncia contro una politica penale contraria ai princìpi costituzionali. Qual è l’impegno concreto dell’Accademia?
Il carcere è un problema immane, e bisognerebbe seriamente ripensare il senso della pena detentiva nel XXI secolo, che solo si può affrontare cercando sempre alternative rispetto al comodo rimedio della segregazione del singolo in una qualche discarica sociale, e cercando sempre di andare “Oltre la vendetta”, per riprendere il titolo di un fortunato saggio di Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna. Dovremmo chiederci se davvero questa overdose punitiva e questa carcerizzazione di massa rispettino i valori della Costituzione, e anche solo la ragionevolezza. Ovviamente no: non solo il principio rieducativo è fortemente compromesso, visto che voler rieducare una persona in carcere – tanto più nelle attuali assurde condizioni in cui versano le carceri italiane – è come voler insegnare a un individuo a nuotare fuori dall’acqua. Ma è lo stesso principio di umanità della pena – un fondamentale principio di civiltà del diritto che affonda le sue radici nella dignità della persona – ad essere ormai sistematicamente calpestato e dimenticato: né è prova anche la norma che in questo decreto trasforma da obbligatorio a facoltativo il rinvio della esecuzione della pena detentiva per le madri puerpere o con prole inferiore a tre anni, assoggettando assurdamente i soggetti più vulnerabili agli “effetti collaterali” di una colpa che non hanno commesso. Invocando come presunta legittimazione la parola magica “sicurezza”, con la pena ed il carcere si vorrebbe esibire un intervento muscolare dello Stato, evocare l’idea di uno “Stato forte” e interventista, ma dietro a questa maschera si nascondono tutte le debolezze di un legislatore incapace di approntare politiche sociali e di strumenti di prevenzione e inclusione in grado di affrontare davvero i problemi. Proprio per questo, credo, Giovanni Fiandaca – uno dei più grandi Maestri del diritto penale del nostro tempo – ha invitato gli studiosi, con la sua straordinaria autorevolezza e saggezza, ad uscire dalle università e a difendere pubblicamente i valori di fondo della Costituzione e del diritto penale liberale, primi fra tutti l’idea di extrema ratio della pena e del carcere: valori che non hanno appartenenze o colore politico, e che sono patrimonio di tutti. E l’Associazione Italiana dei Professori di Diritto penale, in un recente comunicato, ha dimostrato piena sintonia con questo appello culturale, promuovendo importanti momenti di riflessione su questi temi.
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