Il dibattito sviluppatosi nelle ultime settimane, stimolato tanto dalla proposta di introdurre un’autonoma figura di reato di femminicidio quanto dall’approvazione del decreto-legge n. 48 del 2025, offre una formidabile occasione per interrogarsi se davvero il troppo (e male) punire rappresenti esclusivamente il frutto di spregiudicati calcoli elettorali e vada pertanto ricondotto alle sole responsabilità del decisore politico o se, sullo sfondo, si possano intravedere matrici ulteriori.

La bulimia punitiva

Da tempo viene denunciato il dilagare, apparentemente inarrestabile, di una coazione ad ampliare la sfera del penalmente rilevante attraverso la frenetica introduzione di nuove fattispecie incriminatrici, mossa dall’obiettivo di inseguire continue emergenze e placare discutibili ansie securitarie. Il fenomeno, efficacemente ribattezzato “bulimia punitiva”, si traduce in una produzione normativa schizofrenica, ancorata non a effettivi bisogni di tutela ma alla ricerca spasmodica di rendite politico-elettorali: nuovi reati e aumenti di pena quali strumenti di acquisizione del consenso, diretti a massimizzare l’impatto simbolico del loro annuncio per sedare bisogni emotivi di sicurezza e offrire all’opinione pubblica – anche tramite una politica dell’informazione compiacente – la rassicurante sensazione di tenere tutto sotto controllo.

La severità dello strumento penale viene così percepita come la risposta più immediata e confortante a problemi complessi, a prescindere dall’effettiva idoneità a risolverli e dalle concrete ricadute di ordine sistematico: ingolfamento del catalogo dei reati, sovraccarico della macchina giudiziaria, drammatica moltiplicazione dei costi economici e umani per indagati destinati a sofferenze preventive inutili e sproporzionate. Al cospetto di questo scenario – e tutto ciò condiviso – occorre provare a fare un passo avanti, guardando al di là del comodo refrain delle colpe della politica e dello scadimento del modello rappresentativo. Sia chiaro: il panpenalismo è un fenomeno degenerativo serio e attuale delle società contemporanee, alimentato dalla combinazione tra l’istinto verso una pervasività del penale in ogni piega delle relazioni sociali, la pulsione emotiva e la fascinazione verso la creazione di nuovi reati; si tratta di fattori che possono prendere il sopravvento sulla preliminare considerazione dell’esistente e sulla serena disamina della realtà fattuale e legislativa, alimentando la proliferazione di fattispecie penali simboliche e ineffettive.

La dittatura del vittimismo

Senonché, allontanandoci dalle contingenze e ricordando che i rappresentanti non sono altro che lo specchio dei rappresentati – e dunque le rispettive responsabilità non possono essere disgiunte –, non si può fare a meno di inquadrare la questione in un più ampio contesto sociale, rilevando come questa moderna passione punitiva corrisponda a un sentimento profondamente radicato nella società di oggi, nella quale il desiderio di giustizia si trasforma in sete di vendetta e la ricerca della verità diviene una formula vuota e stereotipata dietro la quale si cela la ricerca di un capro espiatorio da consegnare quanto prima alla dittatura del vittimismo; un’imperante tirannia, quest’ultima, che, abbondantemente enfatizzata dalla proiezione mediatica, pervade la quotidianità in nome dell’ancestrale e deresponsabilizzante canone per cui se qualcosa non è andata per il verso giusto è sempre colpa di qualcun altro, che va (quanto prima) individuato e (penalmente) sanzionato.

Come arginare l’inflazione penalistica

Se davvero si vuole provare ad arginare la deriva, aprendo alle ragioni psicosociali, occorre che studiosi e tecnici del diritto si confrontino sull’esatta dimensione del fenomeno, indagando a tutto tondo le complessive matrici di questa inflazione penalistica. Non basta la semplice presa d’atto che punire troppo non rende la società più sicura, né tantomeno più tranquilla, puntando il dito solo verso gli opportunismi della politica. Di certo, non va dimenticato il contributo del diritto giurisprudenziale, che alimenta una non indifferente variante di panpenalismo giudiziario ogniqualvolta, ravvisata l’esigenza di colmare asseriti vuoti di tutela, interviene in supplenza, sul presupposto che il potere legislativo sia stato esercitato in maniera inadeguata o maldestra, lasciando impunite condotte ritenute invece meritevoli di sanzione e quindi bisognose di una “ripenalizzazione” per via interpretativa.

La prospettiva, da cui muovere e su cui investire, è dunque più ampia. Certamente impone di diffondere i limiti dello strumento penale, di chiarire alla politica e ai cittadini, al di fuori della contrapposizione ideologica, i termini effettivi della capacità preventiva e orientativa delle fattispecie incriminatrici e di invocare uno sforzo in termini di capacità auto-limitativa del potere giudiziario, chiamato a privilegiare la corretta applicazione dei princìpi che governano l’imputazione penale alle seduzioni palingenetiche. Ma per non risultare vano, l’impegno deve essere accompagnato da uno sforzo ulteriore: studiare, comprendere e superare il dogma vittimistico che dalle viscere del senso di fallimento individuale arriva ormai a condizionare le scelte politico-criminali e la stessa fisionomia del processo penale. Richiamare il potere legislativo e giudiziario a non assecondare l’ansia collettiva di individuare – sempre e comunque – un responsabile rappresenta solo il primo passo

Cristiano Cupelli

Autore

Professore ordinario di diritto penale, Università di Roma Tor Vergata