L’altro ieri, in Romania, il partito guidato da George Simion – espressione della destra radicale e legato al candidato presidenziale Călin Georgescu, escluso a marzo dalle elezioni – ha stravinto il primo turno delle elezioni. È solo l’ultimo episodio di una dinamica ormai nota in molte democrazie occidentali: l’avanzata di forze politiche reputate «antisistema» e la tentazione, da parte delle istituzioni tradizionali, di opporvisi non solo – anzi, non tanto – sul piano politico, ma attraverso strumenti giudiziari, procedurali, o eccezionali.

Non nascondiamoci dietro un dito. Il caso rumeno è tutt’altro che isolato. Negli ultimi anni, diversi paesi democratici si sono trovati davanti allo stesso dilemma: cosa fare quando forze antisistema, sovraniste, populiste, illiberali crescono nel consenso popolare? In Italia, il fenomeno si presentò già nel 2013 con il Movimento 5 Stelle, che conobbe una lunga fase di ostracismo politico e mediatico prima di esplodere nel 2018. A quel punto fu giocoforza il suo approdo al governo, che corrispose con lo sgonfiarsi della sua bolla. Negli Stati Uniti, Donald Trump è stato oggetto di due procedimenti di impeachment, ma ha rivinto le elezioni, e ancora oggi ha almeno quattro procedimenti giudiziari in corso. In Francia, ogni volta che Marine Le Pen arriva alle soglie del potere, il «fronte repubblicano» – e ora anche la magistratura – tentano in ogni modo di impedirne l’ascesa. In Germania, l’AfD è da anni sotto osservazione dei servizi interni, ed è sempre vivo il dibattito sulla possibilità di metterla fuorilegge.

Ora, sia chiara una cosa. Quelli citati – e altri che potremmo includere nell’elenco – sono tutti casi anche molto diversi tra loro, per genesi, motivazioni interne, conseguenze. Ma hanno una matrice comune, che è la risposta nervosa – spesso isterica – degli establishment. E una domanda conseguente, che vale per tutti: la reazione dei sistemi democratici può spingersi al punto di impedire a chi vince democraticamente di governare, in quanto si teme che metta a rischio la democrazia?

La teoria della democrazia difensiva – sviluppata negli anni Trenta da Karl Loewenstein – sostiene di sì. Secondo Loewenstein, la democrazia non può tollerare al suo interno movimenti che mirano apertamente a distruggerla. Per questo, deve dotarsi di strumenti giuridici e istituzionali per escludere tali forze, anche se godono di ampio consenso. Ai suoi tempi, la storia di Weimar e dell’ascesa del nazismo era lì a dimostrarlo: l’eccesso di tolleranza verso i suoi nemici aveva reso vulnerabile la democrazia.

Oggi il mondo di Weimar non c’è più, ma – in omaggio a questa teoria – vi sono ancora costituzioni che si difendono da questi assalti. In Italia, vige in Costituzione una norma «transitoria» che vieta la riorganizzazione del partito fascista. In Germania, la Legge Fondamentale prevede lo scioglimento dei partiti ostili all’ordine democratico. In Israele, la Corte Suprema può escludere candidati che incitano al razzismo o negano il diritto all’esistenza dello Stato. In Spagna, partiti contigui all’ETA sono stati dichiarati illegali negli anni Duemila. E così via. L’assunto di fondo è che la democrazia possa sopravvivere solo se rinuncia a essere completamente neutrale rispetto ai suoi nemici.

Ma proprio questa idea solleva interrogativi cruciali. Chi stabilisce, e con quali criteri, chi è nemico della democrazia? Fino a che punto si può limitare la rappresentanza popolare senza snaturare il principio stesso di sovranità? Il rischio è che, nel nome della difesa dell’ordine, si finisca per usare gli strumenti della legalità contro il pluralismo. E che la democrazia, per paura di morire, smetta semplicemente di vivere.

La risposta a queste domande non può essere univoca, né astratta. Ma un punto è fermo: non si difende la democrazia svuotando il voto. Non si proteggono le istituzioni impedendo l’alternanza al potere. Non si battono le forze antisistema con gli strumenti dell’esclusione, ma dimostrando che il sistema democratico funziona meglio. Che sa governare, correggersi, includere. Che non ha paura del dissenso, ma lo accoglie nella forma di una competizione regolata.

In fondo, il paradosso è questo: la democrazia è tanto più forte quanto più riesce a vivere sotto la minaccia dei suoi nemici. E lo è davvero solo quando non ha bisogno di nascondersi dietro divieti, ma si affida alla forza del confronto, della parola e del voto. È la prova più dura – e più alta – per ogni democrazia autentica: accettare il rischio della propria imperfezione per non diventare caricatura di sé stessa.