Se un tribunale tedesco decide di “proteggere” due profughi rifiutandosi di affidarli all’Italia, perché qui «rischiano seriamente di subire trattamenti inumani e degradanti», significa alternativamente due cose: o che quei giudici si sbagliano, e allora il nostro Paese dovrebbe affrettarsi a dimostrare che quel giudizio è infondato e che disponiamo di strutture e procedimenti di accoglienza in cui anche la sola ipotesi di quei maltrattamenti è esclusa; oppure significa che siamo una specie di Stato canaglia dove non solo i profughi non trovano protezione, ma appunto dal quale occorre che essi siano protetti, e allora ci sarebbe soltanto da vergognarsi.

I profughi nel mondo sono ottanta milioni. Quelli che sui carnai galleggianti si accostano all’Italia sono un’aliquota insignificante di quell’enorme massa derelitta: ma il meglio che ci viene è di affidarli alle piantagioni schiaviste e alle lamiere dei centri di raccolta, quando proprio non riusciamo a ributtarli in mare. E se si tratta di dare asilo a due di loro (due!), finiamo in un provvedimento giurisdizionale straniero che certifica la nostra incapacità strutturale di assicurare minime condizioni di tutela a chi chiede rifugio.

Ci lamentiamo, probabilmente con buon diritto, se una rivista tedesca, a descrizione infamante dell’Italia, pubblica la fotografia di un revolver sopra un letto di spaghetti al pomodoro: ma restiamo soprappensiero se da lassù scattano la fotografia diversa di un sistema – il nostro – che non sarà complessivamente mafioso ma è platealmente arretrato nel rispetto di regole civili e umanitarie addirittura elementari. E vale la pena di aggiungere che l’interdetto di quel tribunale tedesco non è misurato sui comizi di qualche sovranista, ma sulla considerazione che «entrambi i richiedenti non avrebbero accesso a una struttura di accoglienza e alle relative cure nel caso di un ritorno in Italia». È dunque sottoposta a scrutinio, e il giudizio è negativo, l’affidabilità generale ed effettiva del nostro ordinamento: un sistema in cui è meglio non essere profughi e da cui è necessario farsi profughi.

Dovremmo comprendere questo: che è più facile rispedirne tanti nei lager libici, e più facile è lasciare che tanti vi siano abbandonati, se ci si rende responsabili a casa propria di una versione appena attenuata della medesima infamia. E amaramente dovremmo ricordare che il treno piombato non arriva a destinazione grazie ai binari che ha davanti, ma per la noncuranza di chi sta a guardare mentre lo caricano.