Professione Lobbista
L'intervista
Gianluca Comin: “Utilizzeremo l’Intelligenza Artificiale nel monitoraggio legislativo. La comunicazione? Ormai è entrata nel lobbying”
L’intervista al presidente e fondatore di Comin & Partners, società di comunicazione e relazioni istituzionali. L’ex di Enel nel suo lavoro riunisce anime diverse, sempre sensibile all’innovazione. Ora tocca all’IA
Gianluca Comin, giornalista per dieci anni al Gazzettino, poi manager per Montedison e Telecom. Dodici anni in Enel. È il percorso di chi cavalca il cambiamento. Come è stato preso tutto questo dalle persone che ti erano accanto?
«Quando ho lasciato il giornalismo ho realizzato il cambio più radicale. Mio padre era molto preoccupato, io avevo faticato tanto per diventare giornalista. Lui veniva da quel mondo e riconosceva nei giornalisti uno status che non attribuiva ai manager d’azienda. Ricordo che quando gli dissi che cambiavo lavoro ci rimase un po’ male. E in generale per la mia famiglia non è stato semplice. In questi anni ho scelto sempre occupazioni molto intense, di quelle che prendono gran parte della giornata. Spesso, purtroppo, sono stato costretto a delegare alcune responsabilità, in primis a mia moglie. Dall’altro lato, le tre vite che ho vissuto, da giornalista, da manager e – in quest’ultima parte – da imprenditore della comunicazione, hanno avuto un’altra faccia della medaglia: ho conosciuto tantissime persone interessanti. Non ho mai rincorso il posto fisso e non è stato mai un percorso monotono. Ho cercato sempre di cambiare, seguendo un fil rouge che mi ha fatto conoscere questa professione dalle sue diverse angolazioni».
Ecco, a proposito di queste diverse angolazioni, quanto le tue esperienze, così diversificate, ti servono per esempio nella gestione delle comunicazioni di crisi?
«Moltissimo. Gli anni del giornalismo, fatti pestando il marciapiede insieme a tanti colleghi, mi hanno insegnato la gerarchia delle notizie, a leggere tra le pieghe dei giornali, a seguire l’informazione 24 ore al giorno e a capire cosa sarebbe diventato “una notizia” e cosa no. Un bagaglio che mi è servito molto negli anni successivi».
Hai seguito il percorso di professionalizzazione dell’attività di lobbying e comunicazione sin dagli albori. Pensi si sia arrivati ad un adeguato riconoscimento della dignità professionale di chi si occupa di questo lavoro?
«Questo è un tema molto importante. Ho lasciato il giornalismo per la comunicazione perché volevo passare da un approccio tattico ad uno strategico. Il giornalista consuma la sua esperienza quotidianamente, perché il giorno dopo la notizia è già finita e bisogna trovarne un’altra. Il comunicatore invece ha un metodo strategico, di medio e lungo periodo, il cui obiettivo sta nel posizionare o riposizionare il proprio cliente o la propria azienda. Ho sempre pensato però che si dovesse fare, soprattutto in azienda, molta attività di educazione. Spesso, infatti, il team di comunicazione viene interpellato solo nel momento in cui la crisi è già esplosa, mentre avrebbe più senso coinvolgere i comunicatori nelle fasi iniziali di un progetto, in modo da valutarne anche i potenziali effetti reputazionali. Questo richiede che il comunicatore sia percepito, come altri professionisti dell’azienda, con una sua dimensione strategica e un impatto – non residuale ma centrale – nella vita della società. In questi decenni, devo dire, è maturata molto questa consapevolezza. Viviamo in un mondo intriso di comunicazione e solo uno sciocco potrebbe pensare che ciò che fa nella propria azienda possa non avere riflessi per la propria reputazione. Ma è un percorso che non finisce mai. Dobbiamo costantemente sottolineare il ruolo strategico della comunicazione e dei suoi professionisti. Allo stesso tempo a noi tocca una formazione continua, e la capacità di interloquire con i comitati strategici aziendali, al pari degli altri professionisti».
Chiaro. Quindi se dovessimo immaginare un professionista modello, quanto conterebbe la sinergia tra i due profili, di lobbying e di comunicazione?
«Negli ultimi vent’anni la comunicazione è entrata in maniera prepotente nel lobbying. Oggi, oltre all’attività tradizionale, si è sempre più chiamati a realizzare progetti di advocacy, orientati a imporre all’attenzione dell’opinione pubblica, e dei decision maker, un tema generale, poi declinato in un’attività puntuale sulla legislazione. Questo richiede capacità comunicative non solo tradizionali, ma anche innovative. Pensiamo all’utilizzo dei social network per le campagne elettorali o per quelle di advocacy. Richiede soprattutto capacità di gestione del linguaggio e dei nuovi veicoli, ma anche di intercettare le fake news e reagire prontamente ad esse. Tutte abilità che sono frutto dell’evoluzione che stiamo vivendo».
Quanto c’è di Venezia nel tuo percorso e nella tua formazione? Quanto ha influito crescere lì?
«Ha influito molto. Ho iniziato a fare il giornalista di cronaca proprio a Venezia, e gli anni al Gazzettino sono stati enormemente formativi. Nonostante fosse un giornale regionale ha sempre dato un forte contributo al dibattito nazionale. Poi anche quando mi sono trasferito a Roma, negli anni dell’azienda, ho sempre mantenuto un legame forte con la mia città: prima in Confindustria, poi alla Biennale, come Consigliere. Ancora oggi tra i clienti più graditi che abbiamo c’è il Mose, che è una grande opera infrastrutturale – innovativa – che riguarda Venezia e la sua salvaguardia dalle acque alte. Con molta emozione e molto piacere cerco di tenere sempre vivo il legame con la mia città. Venezia è una città cosmopolita, aperta al mondo, e lo è sempre stata. È una città culturale, che si confronta continuamente con i nuovi trend. È anche però molto pettegola, a volte conflittuale, quindi per chi fa comunicazione diventa davvero interessante, perché riassume un po’ i caratteri degli italiani e, tutto sommato, anche del confronto internazionale. Diciamo che mi ha allenato alla mediazione e alla sintesi».
Passando invece alla passione per l’arte contemporanea, della quale gli uffici di Comin & Partners sono un esempio, credi ci siano affinità tra questa passione e il lavoro?
«Penso di sì, poi ovviamente ognuno cerca una giustificazione alle proprie passioni. Essendo appassionato di arte contemporanea vedo in questa la voglia di scoprire nuove strade, di spostare i confini verso il confronto internazionale, se vuoi anche di trasgredire. Sono tutti ingredienti che fanno di un professionista un uomo aperto a capire cosa gli accade intorno, senza rinchiudersi in recinti. E l’arte contemporanea non ha recinti per natura. Da questa radice di libertà derivano le mie passioni. La capacità di anticipare e cogliere i trend, le sensibilità del mondo reale che cambia, è quello che mi affascina di più. Se si pensa all’ultima biennale, tutta dedicata alla cultura Lgbtq+, ma anche alle precedenti, hanno sempre la capacità di percepire e accompagnare i cambiamenti, a volte con provocazioni, quando serve».
Con uno sguardo al passato, se invece dovessi chiederti chi sono stati i tuoi maestri, a chi penseresti?
«Ne ho avuti molti, e mi hanno offerto numerosi stimoli. Il primo naturalmente fu il mio capo al Gazzettino, Gianpiero Rizzon. Era un inviato speciale di vecchia maniera. Uno di quelli che partivano all’esplosione di una bomba e stavano via due mesi per seguirne le evoluzioni. Un altro grande mentore è stato per me Enrico Bondi, Amministratore delegato di Montedison e di Telecom dopo, che mi ha insegnato a osservare ogni tema da diverse angolature, di cercare sempre una spiegazione a quello che accade. E poi ho lavorato con grandissima passione accanto a Paolo Scaroni, che mi ha educato alla razionalità del manager e all’avere idee sempre molto chiare, e semplici, per poterle perseguire con tenacia. Ma penso anche all’umanità e alla capacità finanziaria di Fulvio Conti, con il quale ho fatto la grande espansione internazionale di Enel, con la conquista della Spagna e del Sud America. Da ognuno ho avuto la fortuna di cogliere grandissimi insegnamenti ma soprattutto esempi di vita».
Ritornando al presente. Ogni giorno osserviamo il settore del public affairs in forte evoluzione. L’innovazione sta accelerando la transizione a processi e a strumenti nuovi, penso ovviamente all’Intelligenza artificiale. Quali pensi siano i prossimi trend da anticipare?
«Noi lo annunceremo a breve, stiamo per inaugurare una stagione di utilizzo dell’Intelligenza artificiale nel monitoraggio legislativo. Credo che questo strumento ci offra la grande opportunità di semplificare il nostro lavoro, di cogliere nuovi stimoli di conoscenza, ma porterà sempre di più a una necessaria mediazione dell’essere umano, della persona, alla quale resta la responsabilità di interpretare e mediare per i nostri clienti un prodotto sempre più tailor-made. Da Comin & Partners sin dall’inizio abbiamo seguito una linea che non è quella della industrializzazione del lavoro, ma è quella della sartorialità. Dell’identificazione per ciascuno dei bisogni e dell’adattamento di un metodo di lavoro che consenta di essere, per ognuno, diversi. L’Intelligenza artificiale, perciò, non è un limite ma un ulteriore vantaggio competitivo».
Quindi quale sarà il prossimo step di Gianluca Comin?
«Sono sempre alla ricerca di nuovi stimoli. Ad oggi la varietà dei settori coi quali lavoriamo rende veramente il tutto molto stimolante. Abbiamo lanciato un’Academy che ci consente di fare di questo mestiere una vera e propria scuola. A ottobre festeggeremo dieci anni di Comin & Partners, un traguardo che non mi aspettavo di raggiungere con tale dimensione. Siamo oltre 70 persone divise tra Roma, Milano, Bruxelles e Parigi. Abbiamo raggiunto risultati che non avevo previsto nemmeno io. Sono sempre attento alle novità e, in particolare, ho un sogno: far evolvere la comunicazione politica in maniera più professionale, all’americana insomma, ma lì si dovrebbe cambiare anche qualche legge. Forse».
E se dovessi chiedere una lettura che è stata fortemente motivazionale?
«Io ho due libricini che fanno parte del mio bagaglio professionale, che sono stati la traccia che mi ha aiutato soprattutto nella vita manageriale, ai tempi in Montedison. Uno è “Lezioni Americane” di Italo Calvino, e l’altro è “L’arte della guerra” di Sun Tzu. Sono due libri molto diversi ma entrambi hanno uno sguardo rivolto a una lettura innovativa del nostro lavoro. Mi hanno dato molti spunti, per questo ogni tanto torno a sfogliarli, quando ne ho bisogno, anche a distanza di qualche decennio».
In “Lezioni Americane”, nel capitolo sulla Leggerezza, Calvino dice che gran parte del suo lavoro – in quarant’anni di carriera – è consistito nella sottrazione di peso. Ti riconosci in questa affermazione?
«Ma certo, noi dobbiamo semplificare innanzitutto noi stessi. Non prenderci troppo sul serio è una delle regole fondamentali per vivere bene e anche per avere successo. Chi si prende troppo sul serio poi alla fine deraglia. Alleggerire, in un mondo pieno di comunicazione, significa semplificare il linguaggio, andare all’essenziale, e questo viene riconosciuto dagli stakeholder, dai clienti, dai consumatori in maniera molto forte. Come diceva Blaise Pascal “Caro amico mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo per scriverne una più breve”».
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