Nel mondo antico, la tragedia non era uno spettacolo: era un processo di conoscenza. Si saliva sul palco non per mostrarsi, ma per svelare ciò che nel quotidiano rimaneva rimosso, indicibile. L’eroe tragico non si limitava a patire: incarnava una verità che non poteva essere espressa altrimenti. Oggi il paradigma si è rovesciato. Il dolore non viene più attraversato per comprenderlo, ma per esibirlo. La realtà non viene indagata, ma trasmessa in diretta. E la tragedia è diventata coreografia.

L’Occidente ha generato una nuova figura antropologica: gli influencer etici. Si muovono tra una manifestazione e un set televisivo, scrivono libri sull’indignazione globale, producono contenuti visivamente compatibili con l’algoritmo. A Gaza, anche quando portano medicinali, scavano macerie, incontrano la popolazione oppressa da Hamas, portano con sé una narrazione – ed è difficile dire quale sia la cosa più importante per loro. Una cornice. Un’estetica della responsabilità che non implica mai un rischio personale, né una riflessione profonda. Si tratta, in fondo, di un’economia simbolica. L’indignazione è una valuta. La tragedia, un contenuto. L’azione, una strategia di posizionamento. In questo senso, non è un’esagerazione – né una provocazione – affermare che questi nuovi protagonisti del racconto occidentale non sono così lontani da Hamas. Non perché ne condividano i mezzi. Ma perché ne condividono la logica di funzionamento.

Hamas investe sul dolore palestinese per costruire potere. Gli influencer investono sul dolore palestinese per costruire reputazione, visibilità, capitali editoriali. Entrambi lucrano – in forme diverse, ma su scala parallela – su una sofferenza che non intendono risolvere. La tragedia non è per loro un fine, ma un’occasione. E l’Occidente, nella sua passività codificata, ha offerto loro il terreno ideale: una società libera che non chiede più verità, ma coerenza estetica. L’attivismo è diventato design etico. La complessità è diventata sospetta. Il dissenso, se non immediatamente spendibile in termini emotivi, viene accantonato.

Chi oggi pronuncia con disinvoltura la parola “genocidio” ha smesso da tempo di pensare. Ha trasformato un termine giuridico, storico, filosofico – carico di responsabilità e dolore – in un elemento decorativo, come un tatuaggio. Ma nessuno di questi nuovi intellettuali, editorialisti, performer morali si assume la responsabilità della parola che usa. Nessuno interroga la struttura ideologica che quella parola nasconde. Nessuno guarda in faccia la complessità del conflitto. Parlano di “resistenza” senza mai spiegare cosa significhi resistere quando si sgozzano civili. Parlano di “oppressione” senza mai guardare negli occhi un palestinese che combatte Hamas, da dentro, ogni giorno, nella solitudine più assoluta. Quella parte della popolazione palestinese non esiste nella loro narrazione perché non serve. Non conferma il dramma in bianco e nero. Non è utile alla costruzione della vittima ideale. Non può essere trasformata in merchandising etico.

Ci troviamo così davanti a un fenomeno di complicità per riflesso. Non è Hamas a infiltrarsi nei salotti occidentali. Sono i salotti occidentali a specchiarsi in Hamas. Non nell’ideologia, ma nella logica. Entrambi manipolano la realtà per estrarne un vantaggio. Entrambi si nutrono del trauma altrui. Entrambi si sottraggono alla domanda fondamentale: a che fine? A chi serve questo spettacolo? A chi giova la riduzione della tragedia a hashtag? Il pensiero filosofico – se ha ancora un senso – dovrebbe nascere da qui. Dalla capacità di distinguere tra rappresentazione e realtà, tra denuncia e complicità estetica. Ma l’Occidente ha rinunciato a questa distinzione. Ha smesso di pensare. E ha cominciato a produrre.

Hamas, con le sue atrocità, costruisce il dominio su un popolo che dice di difendere. Gli intellettuali moralisti del nostro tempo costruiscono carriere sulla tragedia di quel popolo. E nessuno chiede conto. Nessuno chiede: dov’è la responsabilità? Dove finisce la rappresentazione e dove comincia l’etica? Chi difende Israele viene accusato di cinismo. Ma cos’è più cinico? Sostenere il diritto alla difesa di uno Stato o guadagnare visibilità mentre il sangue scorre? La risposta non sta nella retorica. Sta nella logica. Non si tratta più di scegliere tra destra e sinistra, tra sionismo e anti-sionismo, tra Israele e Palestina. Si tratta di distinguere tra chi usa il dolore per costruire significato e chi lo usa per ottenere attenzione. È una linea sottile, ma definitiva. E sta lì la nuova battaglia culturale dell’Occidente. In quella linea. In quel confine che separa la tragedia dalla sua caricatura. L’indignazione autentica dalla recita programmata. La voce dalla maschera.

Io vengo da una guerra vera. So cosa significa fuggire. So cosa significa guardare in faccia la morte e non sapere se verrai ascoltato. L’Occidente mi ha dato gli strumenti per esistere, non per recitare. E proprio per questo, oggi, sento il dovere di dirlo: questa indignazione estetica è una forma di pornografia morale. E come ogni pornografia, non cerca la verità. Cerca l’effetto. Perché la verità, quella vera, quella che fa male, quella che non si può dire in trenta secondi o in una caption, è questa: chi recita la tragedia mentre altri la vivono, non è un alleato. È parte del problema.

Anita Likmeta

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