Abbiamo intervistato il più giovane Rettore d’Italia, Carlo Alberto Giusti, a capo dell’Università Link Campus di Roma, mentre è in viaggio negli Stati Uniti dove sta firmando nuovi accordi con le università americane.

Rettore Giusti, la situazione in Medio Oriente si fa ogni giorno più preoccupante. Che riflesso rischia di avere la guerra Iran-Israele sulle elezioni statunitensi?
«Le elezioni statunitensi sono un grandissimo processo democratico, che osservando da lontano non riusciamo a comprendere del tutto. Da europei siamo molto preoccupati per la crisi in Ucraina e per la rapida escalation della guerra nel Mediterraneo. Ma per chi vive dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, quella del Medio Oriente è una crisi lontana, che genera nell’elettore statunitense minori preoccupazioni delle nostre: è uno degli argomenti dell’agenda elettorale di Harris e Trump, ma né l’unico né il principale».

Intende dire quindi che la crisi tra Israele e Iran non avrà effetti sulle elezioni?
«Non dico che la crisi non incida sui sentimenti dell’elettorato statunitense: la comunità ebraica negli USA ha un peso importante, e la percezione dell’estremismo islamista come nemico dell’intero Occidente è molto radicata in una parte della società statunitense. Ma, come accade da noi, anche negli Stati Uniti l’elettore si basa più su problemi immediati che sulla geopolitica: dall’inflazione, che da tre anni e mezzo non accenna a scendere sotto il 2%, alla disoccupazione che mostra preoccupanti segnali di risalita, al sostegno a Georgia e North Carolina, violentemente colpite dall’uragano Helene».

A proposito di Harris e Trump: cosa è destinato a cambiare dopo le elezioni nel sostegno a Israele? Netanyahu deve preoccuparsi?
«Il sostegno degli USA a Israele è una costante del rapporto tra Washington e Gerusalemme: che vincano i democratici o i repubblicani, sono convinto che questo non sia destinato a cambiare. Posto questo, è indubbio che Trump abbia cavalcato molto il tema del sostegno a Israele, cercando di mettere in difficoltà Kamala Harris che nel frattempo deve gestire un certo malcontento, nel proprio elettorato, nei confronti di Netanyahu. Lo stesso Biden negli ultimi mesi ha più volte usato parole di condanna della condotta della guerra da parte del Primo ministro israeliano, arrivando a marzo scorso a lasciare che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU votasse una risoluzione per chiedere a Israele il cessate-il-fuoco in occasione del Ramadan, scegliendo con l’astensione di non esercitare il proprio diritto di veto: un episodio unico che evidenzia l’imbarazzo con cui Biden ha cercato di stigmatizzare la gestione della guerra da parte di Netanyahu, che stava causando molti malumori nell’elettorato democratico».

Quindi lei ritiene che la vittoria di Kamala Harris possa portare gli USA a ridiscutere il sostegno a Israele?
«Questo è quello che afferma Trump, che fa leva sulle preoccupazioni di un certo elettorato democratico moderato nei confronti della candidata, accusata di accondiscendenza nei confronti di ambienti radicali filopalestinesi. In realtà proprio per questo motivo Kamala Harris ha capito di doversi mostrare più favorevole a Israele: in questo senso è possibile leggere il comunicato di Biden a sostegno dell’operazione con la quale l’IDF ha ucciso il Nasrallah. Biden ha criticato il governo Netanyahu, ma non ha mai fatto venire meno la copertura diplomatica nei confronti di Israele. Né Biden ha fatto mai realmente mancare il proprio sostegno a Netanyahu: il 24 settembre – 3 giorni prima del bombardamento che ha colpito il capo di Hezbollah – la portaerei Truman è arrivata nel Mediterraneo orientale, a garantire la copertura contro possibili ritorsioni iraniane».

Chi può avvantaggiarsi del conflitto?
«In questa fase entrambi i candidati si inseguono nel sostegno a Israele, ma Trump è sicuramente avvantaggiato: Harris proviene da una storia politica più radicale di Biden, e sta cercando di accreditarsi spostandosi su posizioni più centriste. Di contro, il sostegno di Trump a Israele è fuori di discussione, ed è garantito dal ruolo centrale del genero e consigliere Jared Kushner nel collegamento con la comunità ebraica».

A tal proposito: le comunità ebraiche americane sono ben divise tra democratici e repubblicani. Come ricorderanno il 7 ottobre in America, nel suo primo anniversario?
«Il 7 ottobre è una data che il mondo non dimenticherà mai: una sorta di Olocausto del XXI secolo, che ha convinto gli ebrei di non potersi ancora sentire al sicuro. Credo che oggi tutti avvertano la responsabilità di mantenere il 7 ottobre come giorno di commemorazione e non di scontro, ed evitare che al dolore del ricordo si aggiunga quello di nuove violenze».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.