Le strane certezze della Commissione Antimafia
Il complotto sull’uccisione di Aldo Moro scatena la fantasia della commissione antimafia
La cessata commissione parlamentare Antimafia della legislatura scorsa ha reso note le Risultanze di un supplemento di acquisizioni investigative sull’eventuale presenza di terze forze, riferibili a organizzazioni criminali, nel compimento dell’eccidio di via Fani (Doc. XXIII n. 37, Sez. VII). La decisione a prima vista stravagante di occuparsi della vicenda Moro –che in sede parlamentare era stata già oggetto di inchiesta di due commissioni monotematiche, di buona parte dei lavori delle commissioni Stragi e Mitrokhin e di ulteriori discussioni nelle assemblee e nelle commissioni permanenti, nonché di molteplici procedimenti giudiziari e di una montagna di studi storici e di testi pubblicistici e giornalistici – era stata adottata nel quadro di un’espansione a largo raggio: le sezioni tematiche in merito alle quali l’organismo presieduto dal senatore Nicola Morra ha pubblicato relazioni sono ben venticinque.
Tra esse figurano la sparizione di Rossella Corazzin, i delitti delle coppie nella provincia fiorentina tra il 1974 e il 1985 e i rinvenimenti di cadaveri nelle acque del lago Trasimeno nel 1985, l’assassinio di Simonetta Cesaroni a Roma in via Poma, la morte del ciclista Marco Pantani, il furto della pellicola originale di un film di Pier Paolo Pasolini e «le possibili connessioni di quel crimine con l’uccisione» dell’artista. La tendenza ad allargarsi si è manifestata anche nelle pagine dell’elaborato interamente dedicato all’agguato di via Fani, poiché un capitolo tratta della «possibile interferenza» non solo della criminalità organizzata ma anche di «altri soggetti» negli «accadimenti che hanno segnato i 55 giorni del sequestro Moro», invece di attenersi alla dinamica dell’episodio iniziale come il titolo faceva pensare.
Nelle sue pagine introduttive la commissione Antimafia dichiara di essere pervenuta «ad un giudizio di maggior probabilità rispetto al passato in relazione alla presenza nell’azione di un numero diverso di soggetti rispetto a quelli riscontrati in sede di accertamenti giudiziari» (p. 4) e, in quelle conclusive, di «ritenere che nell’organizzazione di un’azione che comportava capacità strategiche elevate e una notevole preparazione militare [che le BR abbiano] chiesto ed ottenuto l’apporto, con qualche contropartita, di uno o più soggetti che potevano assicurare la propria esperienza, tanto nell’uso delle armi da fuoco in condizioni difficili, quanto nella gestione dei sequestri di persona». (p. 61). La Commissione vanta di essersi «avvalsa per la prima volta, in occasione di alcune audizioni, di una precisa e leggibile planimetria della scena dei fatti approntata dalla Polizia Scientifica» (p. 5) e «integrata con il contributo (…) del collettivo di ricercatori Sedicidimarzo» (p. 6) consistente in un «gruppo di quattro persone che si sono incontrate in rete per via del comune interesse al caso Moro» (questa la loro autodefinizione sul blog che hanno creato) e del signor Maurizio Barozzi (Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII, p. 6), personaggi di cui la relazione mostra di fidarsi maggiormente (nota 5, nota 6 e passim).
Altra risorsa sulla quale l’Antimafia punta molto è un’audizione della testimone oculare C. D. (uso le iniziali perché la signora non desidera pubblicità e quando è stata chiamata a rivivere la drammatica scena ha acconsentito esclusivamente per senso del dovere), la quale era già stata sentita due volte nel 1978 dagli inquirenti e dal Giudice Istruttore. Scorrendo le sessantuno cartelle del Doc. XXIII, n. 37, Sez. VII, i concreti riferimenti a «uno o più o soggetti» diversi dalle BR che avrebbero affiancato i terroristi si riducono al solo Giustino De Vuono, un appartenente alla ‘ndrangheta morto nel 1994 il quale nel 1975 aveva partecipato ad un altro sequestro di persona, quello dell’ingegner Saronio, effettuato da elementi di estrema sinistra che però non erano brigatisti rossi e avevano agito a scopo di estorsione. Viceversa, l’Antimafia inclina ad escludere il coinvolgimento di un altro elemento della ‘ndrangheta, Antonio Nirta (p. 54, nota 132), ipotesi che la Commissione Moro-2 (anni 2014-2018) aveva ritenuto plausibile e la giornalista Simona Zecchi del Fatto Quotidiano aveva addirittura spacciato per dimostrata al novantanove per cento. Nelle prime ore successive all’attacco in via Fani, De Vuono era stato sospettato di essere implicato «in veste di elemento di appoggio» alle BR (p. 57).
La suggestione era stata presto smentita ma taluni dietrologi non si sono dati per vinti e in seguito hanno dipinto De Vuono «anche come soggetto eventualmente coinvolto nella tragica conclusione della vicenda» (ibidem), cioè nell’esecuzione di Moro. L’Antimafia non adduce nulla di nuovo a sostegno delle illazioni sul defunto De Vuono, fuorché un’audizione di Alice Carobbio, ex-compagna di uno dei protagonisti del sequestro Saronio, Carlo Casorati. A detta della Carobbio, il De Vuono, cui in sede processuale era stato attribuito «un ruolo di semplice telefonista e quasi di comprimario» del rapimento Saronio, avrebbe invece svolto anche «mansioni operative nell’ambito della predisposizione del sequestro» (p. 58). Tutto qui.
L’Antimafia stessa, peraltro, riconosce che nel 1977 De Vuono, ricercato, espatriò in Paraguay, da lì «si sarebbe spostato in Brasile e sarebbe rientrato ad Asuncion in Paraguay nell’agosto del 1978» e, soprattutto, che «non vi è tuttavia allo stato alcuna evidenza certa della presenza di Giustino De Vuono in via Fani» (pp. 57-58). È perciò misterioso cosa abbia indotto l’Antimafia ad una conclusione più che possibilista in ordine ai presunti apporti di uno o più soggetti esterni alle BR. Tale scenario è anzi inverosimile per una serie di ragioni, che si possono sintetizzare come segue: 1) dal punto di vista delle BR, chiamare a sparare in via Fani un esterno sarebbe stato rischiosissimo. Quale garanzia di lealtà a tutta prova avrebbe mai potuto dare loro uno come De Vuono?; 2) tutte le numerose azioni militari delle BR, prima e dopo via Fani, furono eseguite senza aiuti esterni; 3) gli assalitori di via Fani non avevano bisogno di aiuti esterni, come dimostra l’analogo caso avvenuto nel 1977 in Germania allorché i terroristi della Raf rapirono l’industriale Schleyer con modalità simili a quelle di via Fani, riuscendo anche loro a sterminare gli uomini della scorta della vittima senza subire perdite; 4) i lavori peritali disposti tra il 2014 e il 2015 dalla Commissione Moro-2 ribadirono che in via Fani non ci fu alcun superkiller, ovvero nessuno che fosse dotato di capacità militari straordinarie, di gran lunga superiori a quelle degli altri; 5) il mattino del 9 maggio in cui l’inerme Moro fu ucciso, perché mai le BR avrebbero avuto necessità di chiamare di nuovo il ricercato De Vuono? Non erano forse capaci di assassinare il prigioniero da sole?
Si tratta di obiezioni già ampiamente sollevate dagli studiosi, cui i dietrologi non rispondono ma che la commissione Antimafia, per coerenza con l’impegno a differenziarsi da questi ultimi preso a pagina 4 della relazione, avrebbe dovuto prendere in considerazione, quantomeno. Così non è stato, invece, forse a causa di un deficit di conoscenza del pluridecennale lavoro altrui. La relazione dell’Antimafia offre più di un indizio in questo senso. Ad esempio, essa attribuisce ad un libro dell’ex-brigatista Paolo Persichetti uscito nel 2022 (La Polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro) la primogenitura della notizia dell’esistenza di un furgone di riserva tenuto pronto dai terroristi il 16 marzo 1978, e ne deduce che la loro è una «verità a rate», rivelata «proprio mentre era in corso l’attività di approfondimento di questa Commissione» (p. 37); Persichetti ha avuto buon gioco a replicare, sulla testata Insorgenze, che la presunta primizia in realtà era stampata nel libro autobiografico di Mario Moretti realizzato con le giornaliste Carla Mosca e Rossana Rossanda, Brigate Rosse: Una storia italiana, notissimo agli esperti della materia, edito nel 1994!
Di inedito c’è dell’altro, piuttosto, nella relazione dell’Antimafia. Nella nota 134 (p. 55) si fanno i nomi della coppia che, durante i lavori della Commissione parlamentare Moro-2 (anni 2014-2018, presidente Giuseppe Fioroni) si accertò avere ospitato nell’autunno 1978 il latitante Prospero Gallinari in un appartamento di via Massimi 91 a Roma: Fabio Milioni e Silvia Salvetti. Su via Massimi 91 l’Antimafia, nella nota 134, aderisce all’ipotesi in corso di verifica che i brigatisti in fuga da via Fani con l’ostaggio abbiano fatto tappa lì. Dal canto mio, avendo scritto nel 2018 un libro in collaborazione con un membro della commissione Fioroni, Fabio Lavagno (intitolato Moro. L’inchiesta senza finale) ricordo bene che in quel periodo -cioè dopo che l’organismo parlamentare aveva chiuso i battenti- i nomi della coppia di via Massimi erano top secret, sicché io stesso continuai ad ignorarli. La commissione Moro-2 aveva fatto sapere, piuttosto, che sulla coppia erano in corso indagini da parte dell’autorità giudiziaria, cui naturalmente l’organismo parlamentare aveva trasmesso le informazioni in suo possesso. Anche quando a maggio 2020 la stampa diede notizia di una querela contro l’ex-parlamentare Gero Grassi presentata dai due indagati (o da uno dei due) i loro nomi non furono pubblicati. Sfortunatamente la nota dell’Antimafia non dice se le indagini giudiziarie su Milioni e Salvetti siano terminate.
FINE PRIMA PARTE (CONTINUA)
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