Puntuale come solo gli anniversari sanno essere, la richiesta di “arrivare finalmente alla verità” accompagna la quarantatreesima ricorrenza dell’uccisione di Aldo Moro. Il ritornello, stavolta, è stato intonato in anticipo. Agli arresti di Parigi ha fatto subito seguito la succulenta notizia che una di loro, Marina Petrella, potrebbe svelare misteri occulti sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Ma il coro non si è limitato a reclamare una verità che è in realtà già nota. Gli arresti sono stati spiegati e giustificati da quasi tutti anche con la necessità di “sapere la verità”, come ripete uno dei principali magistrati impegnati allora nel contrasto al terrorismo, Armando Spataro.
La parola è sempre la stessa. I significati invece divergono. Quando Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso nel 1972, insiste perché venga detta la verità sull’uccisione di suo padre non ha in mente oscuri complotti. È convinto che a decidere e a realizzare l’omicidio del padre siano stati quelli che per quel delitto sono già stati condannati: leader e militanti di Lotta continua. Ritiene però che nell’attentato fossero coinvolte con ruoli minori altre persone. Pensa, a ragion veduta, che qualcuno debba aver fatto da palo e che qualcuno debba essersi occupato dell’ “inchiesta” per studiare le abitudini della vittima e preparare il colpo. La “verità” che invoca è di piccolo calibro: si traduce nel mandare alla sbarra un certo numero di imputati minori, a mezzo secolo di distanza dall’omicidio.
Questa peraltro è l’accezione di “verità” che impugnano in diverse occasioni, ogni anno, gli eredi della sinistra e della destra radicali di quei tempi. “Verità per Verbano, per Acca Larentia, per Fausto e Iaio, per Zicchieri” vuol dire solo individuazione di colpevoli a proposito dei quali, se fossero davvero scoperti, occorrerebbe poi interrogarsi sul senso di una sanzione che arriva a distanza di tempo talmente vasta da colpire a tutti gli effetti persone diverse da quelle che, nella notte, dei tempi commisero il delitto. Ma in questo caso lo smagliante termine “verità” altro non è che un sinonimo del classico “pentimento”: denunce in cambio di sconti di pena. S’intende tutt’altro quando invece si parla di “verità” sul caso Moro e in generale sulla scia sanguinosa di quegli anni, quando ci si esalta per quel che potrebbe raccontare “Virginia”, all’epoca nome di battaglia di Marina Petrella, una delle arrestate di Parigi. Qui in ballo non c’è più la piccola storia di qualche complicità rimasta impunità ma quella grandissima della parabola storica italiana. Si allude al sospetto, che per molti è una certezza ancorché indimostrata, di una regia occulta che avrebbe condizionato e indirizzato a colpi di pistole e di esplosivo la storia d’Italia.
Pur accorpate indebitamente sotto un’unica voce, le due richieste sono molto diverse e vanno considerate in modo distinto. La prima, la richiesta di denunciare colpevoli minori come nel caso dell’omicidio Calabresi, risponde alla logica magistralmente illustrata dall’opinione del dottor Pignatone secondo cui l’ergastolo ostativo dovrebbe essere eliminato solo per chi denunci altri colpevoli. Recupero sociale, cambiamenti di personalità, revisione delle scelte passate, persino, nel caso degli arrestati di Parigi, decenni di vita specchiata diventano irrilevanti a fronte dell’unico passo importante: la denuncia. Così, però, un’intera concezione della civiltà giuridica e della funzione della pena viene scardinata, rovesciata. La “verità” con tutto questo c’entra ben poco.
La pretesa di ottenere lumi sulle trame oscure è più significativa e disegna un quadro ben più assurdo. Si parte infatti da due presupposti indimostrati: che ci sia effettivamente un mistero da scoprire e che il soggetto in questione possa svelare in tutto in parte quel mistero. Il caso Moro è esemplare sia perché è il massimo delitto politico nella storia repubblicana, sia perché è quello a proposito del quale è stata ipotizzata un’intera enciclopedia di misteri. Solo che si tratta sempre di ipotesi, per lo più molto fantasiose, mai dimostrate nonostante in quattro decenni sia stata prodotta in materia una bibliografia imponente e oltre tutto in contrasto con la verità processuale accertata. La richiesta paradossale è dunque quella di smentire la verità processuale sulla base di un’opinione diffusa ma tutt’altro che comprovata secondo la quale quella verità è falsa o incompleta. Qualora invece non ci fosse davvero nessun mistero da chiarire la persona a cui si intima di “dire la verità” si troverebbe nella condizione paradossale di non poterla dire, perché agli occhi di chi la chiede suonerebbe come reticenza, oppure di dover mentire.
Per non parlare della possibilità che, pur esistendo davvero qualche verità non svelata, la persona a cui si intima di rivelarla non la conosca. Il caso di Marina Petrella è eloquente. Era una delle principali dirigenti della colonna romana delle Br, dunque, nel ragionamento di quanti hanno scritto e detto che potrebbe far luce sui presunti misteri del sequestro Moro, deve per forza essere al corrente di tutto. In realtà se le Br hanno resistito tanto a lungo prima di essere sgominate è in buona parte proprio in virtù del loro sistema molto rigido di compartimentazione e la colonna romana, proprio perché il sequestro avvenne a Roma e nella capitale si trovava la “prigione del popolo” di via Montalcini, era tenuta particolarmente all’oscuro di quel che succedeva in quei 55 giorni. L’ipotesi che “Virginia” sia depositaria di torbidi misteri è del tutto peregrina, come del resto l’esistenza stessa di quei torbidi misteri. E tuttavia il suo non raccontare quel che non è successo o che comunque lei non conosce si tradurrebbe inevitabilmente in colpevole rifiuto di “dire la verità”.
La martellante, ossessiva richiesta di una verità che combaci con i propri sospetti e le proprie fantasie gioca però un ruolo essenziale nell’impedire che una fase molto lontana nel tempo venga consegnata alla storia. Proprio il clamore spropositato con cui i media e la politica hanno salutato l’arresto di 9 ultrasessantenni e oltre per crimini di 40 anni fa dimostra che in Italia quel passaggio “naturale” alla storia, al passato, resta come sospeso e congelato. Il terrorismo è un eterno presente soprattutto in virtù della leggenda secondo cui la realtà di quell’epoca violenta non è ancora nota, ed è dunque impossibile consegnarla agli archivi della memoria.
È possibile che qualcuno consideri necessario fingere che il terrorismo sia cronaca e storia per evitare che risorga una conflittualità sociale radicale pur se non armata. Più probabilmente agisce solo una cultura ormai diffusa abituata a considerare sempre la realtà evidente come un trompe-l’oeil dietro il quale si nascondono diabolici complotti. Ma, qualunque ne sia l’origine, l’incapacità di considerare una fase storica cruciale come conclusa, e dunque di analizzarla, elaborarla e superarla, è una delle principali ipoteche che tirano a fondo il Paese da decenni. Un problema non per le pochissime persone che rischiano di ritrovarsi in galera a mezzo secolo o giù di lì dai fatti ma per tutti.
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