Neppure il più cauto difensore dell’ordine pubblico potrebbe mai sostenere che le sette persone arrestate ieri a Parigi e i tre latitanti costituiscono una minaccia sia pur minima per la sicurezza. Sono tutte persone che da decenni, spesso da ancor prima delle condanne definitive, si sono lasciate alle spalle le ideologie per cui, un tempo, scelsero la strada della lotta armata. Non solo in molti Paesi i loro crimini sarebbero ormai prescritti ma, per tutti, i mandati cattura europei stavano per scadere. Per la maggior parte di loro il termine era tra il dicembre di quest’anno e i primi mesi dell’anno prossimo, ma anche le scadenze più lunghe non andavano oltre il 2023. Quella del governo italiano è stata una corsa contro il tempo. Degna di miglior causa.

Il nome più noto tra gli arrestati di ieri, Giorgio Pietrostefani, peraltro la scelta della lotta armata non la ha mai fatta. È stato tra i fondatori e tra i principali dirigenti di Lotta continua, dove incarnava la linea più dura, quella della “centralità operai” contrapposta alle istanze innovative, soprattutto delle donne e dei giovani, che alla fine portarono la principale organizzazione della sinistra extraparlamentare degli anni ‘70 all’implosione, nel 1976. Nel gruppo Pietrostefani era stato anche responsabile del servizio d’ordine, non però della struttura clandestina che pure per una certa fase c’era stata.

Dopo lo scioglimento del gruppo aveva abbandonato la politica, denunciato come “fanatismo” molte delle opinioni precedenti e letteralmente passato dall’altra parte della barricata in veste di dirigente d’azienda alle Officine meccaniche reggiane. La denuncia contro di lui, Sofri e Bompressi da parte dell’ex operaio di Lc Leonardo Marino per l’omicidio Calabresi, di 16 anni prima, lo sorprese in queste vesti. Pietrostefani, che oggi ha 79 anni ed è molto malato, a differenza di Sofri riparò all’estero dopo la denuncia di Marino. Tornò in Italia per il processo, fuggì di nuovo nel 2000, prima della nuova condanna. A Parigi non ha mai frequentato la cerchia degli esuli italiani e, come i coimputati, si è sempre professato innocente.

La lotta armata è stata invece una scelta consapevole per Marina Petrella, oggi di 66 anni, brigatista, moglie del dirigente brigatista morto l’anno scorso Luigi Novelli e sorella di Stefano Petrella, uno dei br condannati per l’uccisione del fratello del pentito Patrizio Peci. Venivano tutti, come molti militanti della colonna romana delle Br, dal gruppo Viva il comunismo e Marina è stata a sua volta dirigente della colonna romana. Condannata per l’omicidio del generale dei carabinieri Galvaligi e per il sequestro Cirillo a Napoli, nella scissione delle Br si era schierata con la fazione Partito comunista combattente il che rende per lo meno dubbia la partecipazione al sequestro Cirillo, che costò la vita a due agenti e fu gestito dalla fazione opposta quella del “partito guerriglia”. Marina Petrella è fuggita in Francia, dopo aver scontato anni di custodia cautelare prima della sentenza di Cassazione del maxi-processo alla colonna romana Moro-ter. A quel punto aveva già abbandonato ogni forma di militanza politica.

Petrella fu arrestata nell’agosto del 2007 e anche allora l’estradizione sembrava inevitabile, nonostante fosse in quel momento seriamente malata. Si mosse e la salvò, a sorpresa, la moglie italiana dell’allora presidente Sarkozy, convincendo il marito a negare l’estradizione “per ragioni di salute” in base alla convenzione umanitaria Italia-Francia del 1957. Sarkozy scrisse anche al presidente italiano Napolitano chiedendogli di concedere una grazia che Napolitano non solo non concesse ma diramò una nota piuttosto dura, di fatto chiedendo al francese di non impicciarsi degli affari italiani.

Come Marina Petrella anche Roberta Cappelli, sempre di 66 anni, viene dalla colonna romana delle Br, condannata per tre omicidi, e anche lei aveva già abbandonato la militanza politica quando fu condannata in via definitiva. Incinta al momento dell’arresto, era stata costretta a partorire con gli agenti armati in sala parto: una di quelle aberrazioni, peraltro rara nel mondo, che suscita scandalo quando capita altrove e sembrò a tutti normalissima nell’Italia delle leggi d’emergenza.

Giovanni Alimonti, all’epoca centralinista della Camera e condannato per il ferimento di un dirigente della Digos nel 1982, era già rifugiato in Francia quando fu raggiunto dalle altre militanti della colonna romana. Tra gli altri arrestati, due brigatisti, Sergio Tornaghi, milanese, ed Enzo Calvitti, a cui carico non risultano in realtà reati di sangue nonostante le affermazioni del presidente Macron e un militante dei Nuclei armati per il contropotere territoriale, Narcisio Manenti.

Persone diverse, con percorsi, biografie e responsabilità distinte ma con una cosa in comune: mandarli in galera adesso, a decenni di distanza dai fatti, in una situazione storica completamente diversa da quella ella quale operarono le loro scelte, persone ormai diversissime dai giovani rivoluzionari di allora non è giustizia. È vendetta.