Sul Corriere della Sera del 20 giugno è comparsa un’intervista di Walter Veltroni a Claudio Signorile sul tentativo socialista di salvare Moro facendo compiere allo Stato “atti autonomi” che mettessero le Br in una condizione di difficoltà politica nell’eseguire la condanna a morte che esse avevano proclamato. L’intervista è molto bella per merito di entrambi, dell’intervistatore e dell’intervistato, e rompe un singolare silenzio dei media che aveva circondato l’azione socialista sulla trattativa. In seguito al valore positivo dell’intervista, interloquiamo con alcune affermazioni fatte da Signorile.

Il dato di fondo che Signorile e Veltroni non affrontano è il seguente: Aldo Moro non era uno dei tanti dirigenti della Dc. Aldo Moro, dopo De Gasperi, è stato il più significativo esponente della Dc che ha guidato quel partito a fare unitariamente le sue due scelte politiche più importanti dopo quella centrista, cioè prima il centro-sinistra e poi la strategia dell’attenzione nei confronti del Pci con i governi Andreotti di unità nazionale. A un leader politico di quella caratura è stato riservato dallo Stato, dal governo, dagli apparati un trattamento inusitato: prima, ma, cosa ancor più grave, anche dopo l’uccisione di Moro, non c’è stato governo italiano che non abbia “trattato” in caso di rapimenti.

Anche dopo Moro infatti, fino ai giorni nostri, lo Stato italiano ha sempre “trattato” spesso pagando riscatti. Addirittura, per preservare l’Italia da futuri atti terroristici, abbiamo liberato terroristi palestinesi che già avevano fatto azioni sul nostro territorio. Quello che provocò “la pazzia” di Moro durante la sua prigionia è stata la lucida consapevolezza che nel suo caso questo criterio non veniva seguito, anzi veniva rovesciato. Non a caso più volte nelle sue lettere egli chiese che venisse richiamato in Italia il colonnello Giovannone che aveva in diverse occasioni messo in atto l’opzione trattativista e che aveva rapporti con tutti i gruppi palestinesi che, insieme ai servizi cecoslovacchi (ricordiamo la battuta di Pertini), avevano rapporti con i brigatisti anche perché li rifornivano di armi. Moro, poi, non poteva sapere che dopo il suo assassinio questa linea della trattativa sarebbe stata interamente ripristinata in primo luogo dalla Dc, come dimostrò tutto quello che ha fatto per salvare Cirillo, un assessore regionale campano che faceva parte del sistema di potere di Antonio Gava.

Sul piano internazionale, poi, molti Stati non seguono una linea rigida, ma sono molto pragmatici, come la Germania e Israele, a seconda delle circostanze e degli interlocutori. I più ipocriti sono tuttora gli Stati Uniti: negano in linea di principio come Stato qualunque trattativa e pagamento di riscatto, poi aggirano questi proclami attraverso le assicurazioni private e i contractor. Ma come mai a Moro, e solo a lui, è stato riservato questo trattamento? Sia Veltroni che Signorile tendono a evitare il nodo: fondamentale fu l’atteggiamento del Pci. Berlinguer e Pecchioli furono molto chiari in primo luogo con Andreotti presidente del Consiglio e con Zaccagnini e Galloni, segretario e vicesegretario della Dc: al primo accenno di trattativa il governo sarebbe saltato. Quindi Andreotti non ebbe l’atteggiamento notarile che Signorile gli attribuisce: no, Andreotti fu attivo nell’impedire o bloccare sul nascere ogni ipotesi di trattativa. Giustamente Veltroni ricorda che egli intervenne anche per infilare due parole nell’appello che Paolo VI rivolse ai brigatisti e che sostanzialmente lo vanificò: le due parole furono «senza condizioni».

Invece Paolo VI, che dai tempi della Fuci negli anni ’30 aveva con Aldo Moro un rapporto profondissimo, fece di tutto per salvarlo e, disperato, morì qualche mese dopo. Quindi Andreotti remò contro raccogliendo in modo totale l’ultimatum di Berlinguer-Pecchioli (un autentico tandem in quella vicenda), mentre Cossiga, ha ragione Signorile, si mosse tenendo conto della posizione americana di cui, giorno per giorno, si faceva latore al ministero dell’Interno quell’inquietante professor Steve Pieczenik, ingaggiato come “esperto”: ma era un esperto o un controllore/supervisore forse dello stesso tipo di quello o di quelli che, sull’altro versante, diede ordini decisivi a Moretti? Come ricorda Signorile anche tutto il contesto internazionale era contro Moro, non per ragioni personali (è noto che a Kissinger Moro stava proprio antipatico), ma per il tipo di operazioni che egli stava portando avanti: l’ingresso del Pci nell’area di governo in un paese come l’Italia che allora (non è il caso attuale) rivestiva una grande importanza sia in Europa sia nel Mediterraneo.

È agli atti la presenza alle lezioni di Moro di un singolare studente di nome Sokolov che attirò l’attenzione dello stesso Moro e del caposcorta Leonardi. Perché anche questo avvenne: Moro e Leonardi prima dell’attacco erano molto inquieti perché avvertirono pedinamenti e altro. Ma non ottennero (da Andreotti e da Cossiga) un’auto blindata mentre non possiamo non dire che la scorta era tecnicamente e quantitativamente inadeguata. Non a caso l’idea originaria dei brigatisti era quella di rapire Andreotti, ma dalle loro “inchieste” ricavarono il giudizio che il presidente del Consiglio era “blindato” e che invece il presidente della Dc era vulnerabile. La dottrina della fermezza impostata da Berlinguer-Pecchioli si tradusse nella prassi della sciatteria e dell’inerzia. Clamoroso il caso Gradoli. Prodi aveva avuto dal suo “piattino” (che probabilmente era il corrispettivo dell’autonomia bolognese di Piperno e di Pace) la “dritta” giusta: se le forze dell’ordine fossero allora arrivate a via Gradoli comunque il rapimento di Moro sarebbe finito molto prima, visto che lì alloggiavano Moretti e la Balzarani e di tanto in tanto passava anche la Faranda. Comunque, è chiaro che, dal lancio del documento apocrifo del lago della Duchessa, scesero in campo altri soggetti che interloquivano per loro conto con le Br.

Ciò detto, sarei più cauto di Signorile nella descrizione dei rapporti di forza all’interno del Psi che allora erano molto bilanciati: nessuno, né Craxi né Signorile, aveva in tasca una maggioranza certa. Direi piuttosto che a influenzare molto la situazione interna del Psi sia stato il comportamento del Pci e quello che poi, nel 1980, accadde nella Dc. Pesò molto lo schematismo e il settarismo di Berlinguer. Non vorrei scandalizzare Veltroni, ma a mio avviso, paradossalmente, vista la linea politica che Berlinguer portava avanti nei confronti della Dc e del mondo cattolico, proprio lui avrebbe dovuto sostenere la linea scelta da Craxi per salvare Moro.

Nel momento di maggiore difficoltà della Dc, Berlinguer avrebbe dovuto darle una sponda, non metterle il coltello alla gola come invece fece e come teorizzò nelle sue lettere Tatò. Berlinguer avrebbe dovuto anche fare i conti con un dato elementare: tutta la sua strategia si fondava sulla persona di Moro. Senza Moro, nella Dc non andava avanti nulla, a maggior ragione in una Dc prima costretta a rinchiudersi nella linea della fermezza, poi scioccata dall’uccisione del suo leader. Lo stesso schematismo fu adottato dal Pci nei confronti del Psi a partire dal comportamento sull’incarico di formare il governo dato a Craxi da Pertini nel 1979. Personalmente ho il ricordo nitido di un incontro che con Signorile avemmo con Barca e Chiaromonte: «proprio perché la Dc si sta esprimendo contro il tentativo di Craxi è auspicabile una vostra apertura che avrebbe l’effetto di migliorare i rapporti fra il PSI e il PCI».

Non cavammo un ragno dal buco anche perché Berlinguer su Craxi e su tutti noi aveva gli stessi garbati giudizi espressi da Tatò nei suoi appunti. In effetti proprio Berlinguer scelse di piegare la Dc ad una totale subalternità (ma la Dc non era Galloni) e di marcare il suo giudizio sul Psi guidato da Craxi (una banda di avventurieri della politica). In questo modo Berlinguer diede un contributo decisivo alla determinazione della fase politica successiva, quella del pentapartito e della rottura fra il Psi e il Pc.