Il “Corriere della Sera”, ieri: “I rapporti tra politici e imprenditori devono trovare un assetto più chiaro: la differenza tra finanziamento ai partiti e mazzette è meno definita di quel che si pensasse”. “Di quel che si pensasse”: benvenuti sul pianeta Terra, colleghi. E benvenuti a tutti coloro che cominciano a percepire, dopo giorni di massacro mediatico, le evidenti incongruenze e distorsioni dell’inchiesta Toti, peraltro individuabili molto semplicemente, se si è in buona fede: quando – nelle ore successive ad uno showdown giudiziario, condito di arresti, paginate di intercettazioni e titoloni a effetto – arrivano sui giornali gli “spunta un nuovo filone”, “aperto un nuovo fascicolo” (ieri è stata la volta dei dati Covid “aggiustati”), significa che l’indagine madre è debole e/o farlocca e gli agenti della Stasi, anche detti PM, sono costretti a spargere nuvole di fumo per nasconderne i vuoti. Al momento questo è lo stato dell’arte a Genova e dintorni, se si vuole essere oggettivi e freddi.

Lobbying e politica

Ma veniamo al tema che sta sullo sfondo di questa come di altre indagini, cioè a quel rapporto tra lobbying e politica che nel nostro paese è strutturalmente irrisolto, privo com’è di ogni cornice normativa e quindi esposto a variopinte interpretazioni e conseguenti fibrillazioni. Intanto una cosa è certa: per il rilievo che ha – e che ha avuto in tornanti decisivi della storia d’Italia – il tema non può essere affidato ai magistrati, soggetti incaricati dell’amministrazione della giustizia e dell’applicazione delle leggi. Se in Italia le normative in materia di lobbying e finanziamento della politica sono contraddittorie, deboli o assenti, non è certo colpa loro, ma della politica, che dovrebbe rapidamente mettervi mano.

Innanzitutto disciplinando le attività di rappresentanza di interessi e di lobbying, individuando gli ambiti e i confini in cui vanno svolte e le regole cui devono attenersi. È dal 1976 (millenovecentosettantasei, 48 anni fa) che il Parlamento italiano cerca di disciplinare la materia. Se non vi riesce è per tre ragioni strutturali: una normativa chiara e innovativa disturberebbe le grandi e sclerotizzate corporazioni sindacali e d’impresa (Confindustria in primis), che detengono il monopolio della rappresentanza; non converrebbe a quei politici e a quegli stakeholders che preferiscono vecchie modalità di gestione opaca (e a rischio corruzione) delle relazioni; non piacerebbe ai media che, nelle pieghe della normativa che manca, tengono per le palle politici e imprenditori in una alleanza scellerata con settori della magistratura, impalcandosi a giudici ultimi e inappellabili della moralità pubblica.

Il finanziamento della politica

Per questi motivi è difficile immaginare che il Parlamento di un paese come il nostro, corrivo e corporativo, possa venire a capo della materia. La speranza non muore mai, ma la fiducia scarseggia. Quanto al secondo punto, il finanziamento della politica, chi scrive non è affatto innamorato del vecchio regime dei contributi pubblici ai partiti abolito pochi anni fa, e neppure si entusiasma per quei sistemi misti, fatti di agevolazioni fiscali, concessione gratuita di spazi pubblici, possibilità di organizzare lotterie e altre forme indirette di sostegno pubblico, in uso in altri paesi, e che qui da noi si perderebbero, temo, in un mare di scartoffie e arzigogoli burocratici. Penso, più semplicemente, che chi intende finanziare un partito o un politico dovrebbe poterlo fare liberamente, senza tetti né vincoli, purché i contributi siano tracciati e trasparenti. Che poi le donazioni possano favorire delle scelte politiche e programmatiche e non altre, che sostengano determinate cause e non altre, mi sembrerebbe una cosa normale e vitale. La loro emersione squarcerebbe il velo di quell’eterna ipocrisia italica che nega gli interessi come potenti, basilari fattori di crescita, modernità e civilizzazione di un popolo.