Il Governo dovrebbe avere chiaro come sarà il Monte dei Paschi, di cui ora il Tesoro detiene il 64 per cento circa, dopo l’operazione con l’Unicredit. Anzi, l’obiettivo che dovrebbe perseguire con il negoziato con quest’ultimo istituto è proprio la realizzazione dell’architettura del Monte che dovrebbe avere in mente e, in funzione della quale, partecipare, nella trattativa, alle prestazioni e controprestazioni. Non sarebbe ammissibile che ci si avvii a un negoziato senza prefiggersi il punto nel quale si vuole approdare.

Nell’audizione presso le Commissioni parlamentari riunite di mercoledì scorso, il Ministro dell’economia Daniele Franco ha escluso lo “spezzatino” del più antico Istituto di credito del mondo, ha precisato, quindi, che con l’operazione Unicredit non si vuole smembrare il Monte ma, poi, sulla prospettiva non è stato chiaro, deducendosi che si costituirebbe una “bad bank” (in particolare, per i crediti deteriorati e i rischi legali) e una “good bank” che potrebbe essere il nuovo Monte, senza però chiarire dimensioni, operatività, ambito territoriale di quest’ultimo e rapporto con l’acquirente Unicredit, se si esclude l’aggregazione e il dissolvimento dell’Istituto senese nell’incorporante.

Del resto, avendo Franco sostenuto che una delle condizioni del progetto è la tutela del marchio, se non si tratta di una mera questione di immagine, ciò comporta che il Monte, sia pure con una diversa configurazione, resti in vita, corrispondendosi così, come Franco ha detto, non solo al valore storico della Banca, ma anche a quello commerciale, alla tutela del risparmio, al positivo rapporto con il territorio.

Il punto cruciale, che consentirebbe una valutazione responsabile, è con quale configurazione ciò avverrà e, poi, se questa sarà stabile e non si arriverà allo “spezzatino” successivo: non volendo il Tesoro darsi carico, come si è detto, dello smembramento, questo – il lavoro sporco – sarebbe compiuto “pro domo sua” dall’Unicredit. Ma se l’obiettivo è l’integrità del Monte, “mutatis mutandis”, perché il Tesoro esclude tassativamente “a priori” un allungamento dei tempi per concludere l’operazione, andando pure oltre il 31 dicembre, termine concordato a suo tempo con la Commissione Ue? Se non altro, la proroga, da negoziare con Bruxelles, ma senza “metus reverentialis”, allenterebbe la morsa nella quale il Tesoro è venuto a trovarsi, essendo l’Unicredit l’unico potenziale acquirente che, in quanto tale, può arrivare a imporre condizioni anche allo Stato che si è vincolato all’unico “forno”, il solo che il Tesoro dice essere disponibile.

Nella relazione di Franco – è vero, anche per lo stato della trattativa – manca una quantificazione degli oneri che incomberebbero allo Stato e, per il personale dell’Istituto (21 mila dipendenti), si indica la previsione di 2.500 esuberi su base volontaria, ma si precisa che potrebbero considerevolmente aumentare se la Commissione Ue chiederà un piano industriale più ambizioso. L’operazione sarà di mercato, ha detto il Ministro, in linea altresì con le regole della concorrenza. È, in particolare, da chiarire quali siano le condizioni che l’Unicredit vuole spuntare, anche perché non solo esse pesano sulla finanza pubblica e, dunque, sui contribuenti, ma anche per il rischio di cadere nel divieto di aiuti di Stato, perché tali alla fine si configurerebbero gli oneri in questione.

Insomma, anche sul piano informativo e del coinvolgimento del Parlamento prescritto da una specifica norma siamo alle fasi preliminari. Molto deve essere chiarito a partire dal “primum movens”: qual è l’obiettivo che lo Stato si propone di conseguire.

Ma questa vicenda non è solo l’approdo di pratiche di “mala gestio”, ingerenze partitiche, sociali, economiche nella vita del Monte; è anche l’estrema conseguenza della sciagurata acquisizione da parte di quest’ultimo, nel 2008, di Antonveneta purtroppo autorizzata dalla Vigilanza.

E non basta, la normativa europea sul “bail-in” e sul “burden sharing” recepita in Italia ha dato una pessima prova. Alla fine è stata solo parzialmente applicata, ma ha indotto a superare definitivamente i criteri, le norme, le politiche nazionali che, in Italia, consentirono, con il determinante apporto della Banca d’Italia di Antonio Fazio, una ristrutturazione bancaria negli anni Novanta del Novecento che ha elementi di paragone solo in quella degli anni Trenta dello stesso secolo. Riguardò il Banco di Napoli, il Banco di Sicilia, la Cassa centrale Vittorio Emanuele, la Cassa di Calabria e Lucania e diversi altri istituti.

Oggi viene troppo leggermente esclusa una soluzione di sistema, come quella praticata con successo per l’Ambrosiano agli inizi degli anni Ottanta. Comunque, le specifiche normative europee, adottate con una visione rigoristica nella crisi finanziaria, ora sono da rivedere sostanzialmente anche perché si è dimostrato che quelli che venivano considerati oneri per il bilancio pubblico per gli interventi di salvataggio bancario tali non sono risultati se, per esempio, nel caso del Banco di Napoli le misure pubbliche agevolative che vanno sotto il nome del Decreto Sindona (adottate per la prima volta per le banche dissestate del finanziere) sono state “ripagate” con un apporto al Tesoro, alla fine della liquidazione, di circa 500 milioni. Se si fa un raffronto con gli oneri sostenuti per i recenti dissesti bancari, si ricava la loro netta superiorità rispetto alle agevolazioni di cui al suddetto Decreto. La storia è maestra di vita, ma continua ad avere discepoli distratti o impreparati.