In una sinistra italiana che dovrebbe essere la prima custode della memoria storica e della lotta contro ogni forma di odio, 44 parlamentari del Partito Democratico hanno deciso di compiere un gesto tanto simbolico quanto pericoloso: chiedere la sospensione di Israele da tutte le competizioni sportive internazionali, dalla FIFA al CIO, passando per l’UEFA. Una richiesta che arriva proprio in vista della partita Italia-Israele del 14 ottobre a Udine. La motivazione? «Affermare che lo sport non può restare neutrale davanti a una politica di annientamento».

Ma questa non è una battaglia per la giustizia. È una presa di posizione ideologica e miope che, di fatto, si traduce in un attacco contro un intero popolo. Non si punisce un governo: si puniscono atleti, allenatori, giovani promesse, cittadini comuni. Si punisce una nazione che vive sotto la minaccia costante del terrorismo e che, dopo il massacro del 7 ottobre – un attacco terroristico brutale e premeditato compiuto da Hamas – ha deciso di difendersi e di garantire la sicurezza dei propri cittadini. Quale Paese non lo farebbe?

L’assurdità è ancora più evidente se si considera il bersaglio: Israele. Non un regime autoritario, non una dittatura, non uno Stato che sopprime le libertà fondamentali, ma una democrazia vera, con una società civile vibrante, una stampa libera, un sistema giudiziario indipendente e una pluralità politica reale. Una nazione che, persino durante la guerra, continua a interrogarsi, discutere, protestare. E proprio questa vitalità democratica, che andrebbe sostenuta, viene oggi isolata.

Cosa si pensa di ottenere con un boicottaggio sportivo dal triste sapore di “pogrom”? Rafforzare il dissenso interno? In realtà si ottiene l’effetto opposto: si compatta la società israeliana contro un’ingiustizia esterna, si dà fiato a chi accusa l’Occidente di doppi standard, e soprattutto si regala una vittoria propagandistica a Hamas, che da anni cerca di trasformare il conflitto in una guerra ideologica contro l’esistenza stessa di Israele. La storia ci ha mostrato esempi di esclusioni sportive giustificate: il Sudafrica dell’apartheid, la Jugoslavia in pieno collasso bellico, la Russia dopo l’aggressione all’Ucraina. Ma qui non siamo di fronte a un’aggressione imperialista. Siamo davanti a uno Stato che reagisce a un’aggressione sanguinosa, cercando di eliminare una minaccia terroristica che non riconosce il diritto stesso di Israele a esistere.

Il vero punto politico è questo: oggi, la richiesta del Partito Democratico parla la stessa lingua di Hamas. Per quanto suoni duro, è così. Perché attribuire all’intero Stato di Israele una colpa collettiva è esattamente il messaggio che il terrorismo islamista vuole far passare: che Israele è illegittimo, che il suo popolo è colpevole, che va isolato, cancellato, rifiutato. È lo slogan “dal fiume al mare”, tragicamente noto. Sostenere i palestinesi non significa accodarsi a campagne di delegittimazione. Significa sostenere soluzioni politiche, umanitarie, concrete. Significa distinguere tra terroristi e civili, tra Hamas e i palestinesi che aspirano a una vera pace. Chi chiede la sospensione di Israele dallo sport non fa questa distinzione. Al contrario: contribuisce a rafforzare l’odio, a polarizzare il conflitto, a cancellare ogni prospettiva di dialogo.
Oggi Hamas può sorridere. E può ringraziare quei 44 parlamentari italiani che, credendo di promuovere i diritti umani, finiscono per fare esattamente il contrario.

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