Sarà la magistratura milanese a stabilire se nell’inchiesta contro il giudice Andrea Padalino, indagato per corruzione e in seguito assolto, l’ex procuratore della repubblica di Torino Armando Spataro, l’aggiunto Anna Maria Loreto e alcuni sostituti, occultarono prove a favore dell’imputato. Se gli inquirenti di Milano decidessero di iscriverli nel registro degli indagati, sarebbe clamoroso. La trasmissione degli atti a Milano è stata decisa dalla gip di Brescia, cui si era rivolto con un esposto lo stesso giudice Padalino. Così, dopo il caso del processo Eni e la condanna di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per rifiuto di atti d’ufficio, di nuovo una procura della repubblica dovrà indagare sul comportamento di colleghi nella fase delle indagini preliminari. Proprio negli stessi giorni in cui lo stesso ministro Nordio ha denunciato trucchi e trucchetti di certi suoi ex colleghi, i cui comportamenti ha potuto osservare nell’arco di 40 anni di professione con la toga sulle spalle.

Il caso

L’esposto del dottor Padalino, oggi giudice al tribunale civile di Vercelli e all’epoca dei fatti pubblico ministero a Torino, riguardava un gruppo nutrito di suoi colleghi che si erano occupati del suo caso. I pm milanesi Laura Pedio e Eugenio Fusco, che erano diventati titolari del fascicolo arrivato da Torino, come prescrive l’articolo 11 del codice di procedura penale per le cause che riguardino magistrati. E poi il gruppo dei torinesi, a partire dal procuratore capo Armando Spataro e l’aggiunta Loreto, che in seguito prenderà il suo posto, unitamente ad alcuni sostituti. L’inchiesta era nata a Torino, promossa dal procuratore Spataro, ed era partita, come spesso capita anche a quelle che poi finiscono in un flop, con grandi ambizioni, in questo caso quella di processare un magistrato “beccato” a farsi corrompere. In che modo? Facendosi assegnare dal proprio superiore determinati fascicoli di indagine che riguardavano persone da cui avrebbe avuto in cambio vantaggi e utilità. Una forma di corruzione veramente singolare.

Così come singolare è ritrovare in questa inchiesta, fino all’ultimo sviluppo della decisione della gip di Brescia di non archiviare le posizioni degli ex procuratori Spataro e Loreto e gli altri, come era invece stato richiesto dal pm, nomi di personaggi che la storia giudiziaria del paese continua a intrecciare. Perché Andrea Padalino fu un giovanissimo gip di mani Pulite 30 anni fa a Milano, mentre al quarto piano dello stesso palazzo di giustizia il pm Spataro era il numero uno nelle inchieste sulla criminalità e il terrorismo. Ritroviamo anche due procuratori milanesi come Eugenio Fusco e Laura Pedio (oggi numero uno a Lodi), accusati dall’esposto di Andrea Padalino di “inerzia” nelle indagini, proprio come diceva un altro pm dello stesso ufficio, Paolo Storari, relativamente all’inchiesta sulla famosa Loggia Ungheria. E ritroviamo la magistratura bresciana, la stessa chiamata a giudicare, e poi condannare, Piercamillo Davigo e Fabio De Pasquale.

E al fianco del giudice Padalino l’avvocato Massimo Dinoia, esperto di tate battaglie nel palazzo di giustizia più famoso d’Italia. Questa gli sta particolarmente a cuore, come si legge nel comunicato del giorno dell’assoluzione definitiva, in cui si emoziona per la fine di un calvario. Perché questa vicenda giudiziaria somiglia anche in un altro, non secondario, particolare, al processo Eni. Infatti, dopo l’assoluzione nel processo abbreviato davanti al gup e il ricorso della procura in appello, c’è stata la rinuncia della procura generale a continuare il processo. Anche perché i pm Pedio e Fusco, che avevano chiesto la condanna dell’ex collega per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio, avevano presentato ricorso solo per quest’ultimo reato. E la corruzione? Sparita insieme alla fanfara e alla gogna.

L’esposto

Assoluzione definitiva, dunque. E poi l’esposto perché, secondo il giudice Padalino, quel fascicolo trasmesso da Spataro a Milano era un guscio vuoto mentre a Torino, continuando le indagini sui coimputati, guidavano le danze, pur non potendolo fare, anche sul collega. E poi -ed è su questo particolare che dovrà ora indagare Milano- c’è il fatto che due diretti superiori di Padalino, Paolo Borgna e Patrizia Caputo, avevano inviato due diverse relazioni a Spataro e al procuratore generale per dimostrare l’assoluta regolarità dell’assegnazione dei fascicoli processuali, cioè l’oggetto della presunta corruzione di Padalino. Perché queste due relazioni che scagionavano l’indagato non sono mai state allegate al processo, ma invece registrate a “protocollo riservato”? E perché il procuratore Spataro, benché sollecitato, non le ha trasmesse ai colleghi milanesi titolari dell’inchiesta su Padalino? Lo farà Paolo Borgna solo due anni dopo, nella sua veste di facente funzioni. E sappiamo come è finito il processo.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.