Con fierezza si definisce un “togliattiano” e per questo “gramsciano”. E con altrettanta determinazione motiva la sua firma in calce ad un appello per la pace condiviso da intellettuali di destra come Pietrangelo Buttafuoco e Marcello Veneziani. La parola a Giuseppe Vacca, Professore emerito di Storia delle dottrine politiche all’Università di Bari, già direttore dell’Istituto Gramsci, più volte parlamentare del Pci. Quanto al PD, resta un progetto irrealizzato. E ne spiega il perché.

Professor Vacca, lei ha affermato, cito testualmente: “Serve una discussione alternativa all’invio di cannoni”, riferendosi alla guerra in Ucraina. Cos’è, un favore a Putin?
Trovo non solo sbagliato ma avvilente discutere in questo modo. La bussola è se l’Europa può continuare ad avere una relativa autonomia e unità oppure no. Le cose sono interdipendenti. Posto che Putin ha invaso un Paese tra virgolette “sovrano”…

Perché tra virgolette?
Dico tra virgolette perché in un mondo nel quale sono in atto una sessantina di guerre, parlare di sovranità è un po’ un privilegio da vecchia signora europea, non so quanto aderente alla realtà effettiva della Terza guerra mondiale in cui siamo entrati da tempo. Il problema non è Putin. A mio parere il problema è l’Europa. Naturalmente questo significa una cosa precisa…

Vale a dire, professor Vacca?
Che la Russia è parte dell’Europa. Questa è la geografia, è la storia a sancirlo. Per quanto la si possa manipolare, è una storia lunga e non a disposizione di transitorie strategie unilaterali di questo o di quello.

Definire come lei ha fatto quello in Ucraina “un conflitto per procura degli Usa, come in Libia e in Siria”, è un’affermazione molto forte.
Non so se forte o debole. M’interessa se coglie un dato fondamentale del mondo globale oppure no. Per la verità il giornale in questione (Il Fatto quotidiano, ndr) ha riferito solo in parte quello che io avevo detto, e cioè che gli Stati Uniti non fanno più guerre che non siano “per procura” dopo la sconfitta nella guerra del Vietnam. Quella sconfitta fu accompagnata dalla crescente indisponibilità dei giovani americani a combattere per una guerra che non riuscivano a giustificare. D’allora gli Stati Uniti non impiegano più il residuale esercito di leva. E tutte le guerre in cui sono stati coinvolti o si sono calati, sono state combattute per procura. Procura è un termine recente, proposto soprattutto dall’impostazione di Limes. Io ho usato in altri tempi, il termine “uncensored war”, cioè guerre combattute con truppe mercenarie. In questo caso è ridotto alla funzione mercenaria un intero popolo. Parlo dell’Ucraina, poiché l’interesse strategico principale, in cui si inserisce anche quello “nazionale” ucraino, è definito dalla strategia globale della nuova Nato. Che non è più un’alleanza difensiva ma un’alleanza che ha per missione quella di combattere ogni nemico, definito in prima istanza come la Russia di Putin.

Lei è stato tra i firmatari di un appello dal titolo “Un negoziato credibile per fermare la guerra”. In che cosa dovrebbe consistere questa credibilità?
Sono variazioni su un tema proposto una quindicina di giorni fa all’Angelus da Papa Francesco. E cioè al punto in cui siamo il suo invito è rivolto a Putin perché faccia proposte serie di tregua e anche d’intesa, e agli ucraini, a Zelensky perché le valuti seriamente e nel caso le discuta. Di più, nella lettera che io ho sottoscritto, c’era la sollecitazione da un lato all’Europa a promuovere una iniziativa del tipo “Conferenza internazionale per il cessate-il-fuoco”. Internazionale vuol dire globale in questo caso, però su iniziativa europea. E dall’altro, mobilitazione della società civile di cui si sente poco la voce, se non qua e là quella localmente. Mobilitazione della società civile, alla lettera, dovrebbe comprendere anche i partiti. Perché a partire dalle Lezioni di filosofia del diritto di Hegel, i partiti sono la trama privata dello Stato, cioè la spinatura della società civile. Oggi però è difficile farsi capire con questo linguaggio. Quindi cos’è la società civile? La mia risposta è che sono i cittadini, però anche con i loro movimenti, le loro associazioni e le loro rappresentanze dirette, immediate, cioè i sindaci, come sta avvenendo.

Lei è stato per lungo tempo direttore dell’Istituto Gramsci, più volte parlamentare del Pci. Insomma, una vita a sinistra. Ha firmato questo appello anche con intellettuali di chiaro orientamento di destra come, solo per citarne alcuni, Pietrangelo Buttafuoco e Marcello Veneziani. Non è una compagnia “indigesta”?
Indigesta perché? Quando si tratta di provare a dimostrare che le guerre sono evitabili, che tra l’altro è il postulato fondamentale dell’epoca contemporanea, cioè dell’epoca che si apre con il 1945 quando comincia l’era atomica. Da quel momento la pace non può essere più un’aspirazione. Diventa una straordinaria sfida: quella di riuscire a provare che la guerra non è più la prosecuzione della politica con altri mezzi, poiché implica costantemente il rischio dell’Armageddon. Dispiace doverlo ripetere, il primo a formulare queste idee fu Palmiro Togliatti in un editoriale anonimo pubblicato su Rinascita subito dopo il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. Lei ha richiamato la mia antica militanza comunista che non è affatto ex. La mia identità è quella di un vecchio comunista italiano, togliattiano e perciò gramsciano. Non mi chieda di spiegare tutta la formula, perché questa vuol dire una sintesi autobiografica di una vicenda che comincia dal 1961. Ma io sempre là sto. E per questo l’unico progetto politico-partitico sensato che ho condiviso fin dalla sua nascita, in anni a noi vicini, era il “progetto” del PD. Finora questo progetto è rimasto un’utopia. Per combattere contro i pericoli di guerra, si diceva durante la Terza internazionale, o per dimostrare la evitabilità della guerra, intorno a questo obiettivo vengono meno le tradizionali provenienze e appartenenze. Se c’è un criterio, più o meno esplicito, è la possibilità di lottare per un obiettivo che sostanzialmente è la sopravvivenza del genere umano innanzitutto. Obiettivo rispetto al quale il primo principio da far valere è che uomini, donne, bambini, europei, extraeuropei, gialli, neri, verdi, bianchi, siamo parti di un unico genere. Il genere umano. Questo è un aspetto della fratellanza umana che può solo esaltare, non creare imbarazzi identitari.

Lei in precedenza ha parlato del “progetto” irrealizzato del PD. Vale ciò che si è detto e scritto del socialismo reale: è irriformabile?
Ho sempre considerato un finto dibattito, assolutamente ideologico, quello sulla riformabilità o meno del socialismo reale. Per la semplice ragione che essendo una creazione della storia, come tale muta nel tempo ed è in esso mutabile. Riforma, in fondo, vuol dire mutare. Non è che fosse irriformabile. Il grande storico russo Ghefte, famoso negli anni della perestrojka, interpellato sul perché alla fine l’Urss si dissolse, rispose così: “Ci sono stati i dinosauri, poi sono spariti perché era finita l’epoca dei dinosauri”. Dietro questo cosiddetto dibattito sulla riformabilità del socialismo reale si nasconde un vecchio trucco dell’ineliminabile etnocentrismo di noi occidentali. Che quando ci ponevamo il problema se fosse riformabile o no, intendevamo dire se poteva diventare come noi o no. Esattamente come adesso. Questo non ha niente a che fare né con il retto ragionare né col senso della storia. È soltanto propaganda, banalmente etnocentrica. Noi europei siamo una piccola minoranza dell’umanità che per ragioni storiche straordinarie si trova ancora a vivere nella parte forse in cui è meglio vivere nel mondo. Erigere questo, innalzare questo a criterio morale o storico o politico per giudicare quelli che vivono diversamente, anche loro in virtù di storie diverse, nelle altre parti del mondo, è una pura stupidità di una civiltà, quella occidentale se questo concetto ha ancora un senso, in declino.

Il “progetto PD”. Un progetto a suo dire irrealizzato. Perché?
Irrealizzato perché chi se ne è occupato, chi se ne sarebbe dovuto occupare, chi ne ha avuto la responsabilità, non ha mai affrontato il problema di provare a radicarlo in una narrazione storica dell’epoca contemporanea o se si vuole della storia mondiale del ‘900, quell’arco di tempo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine del secolo passato, che sia qualcosa di sensato a prescindere dalle mega narrazioni egemoniche, sostanzialmente ideologiche in cui noi siamo immersi come in una bolla mediatica. Quel progetto contiene il germe di una innovazione così profonda da richiedere fin dal suo concepimento un radicamento nella storia del ‘900 che, per citare Gramsci, “è per la prima volta storia mondiale”. E solo per convenzione possiamo scrivere storie parziali, regionali, tematiche, a condizione di calarle in un contesto che spieghi univocamente il senso che intendiamo dare a un progetto. Si è mai visto questo tentativo, a cominciare dal biennio di preparazione? Quando Pietro Scoppola cercò di spingere in questa direzione non fu ascoltato. E come lui non furono presi sul serio quanti altri ci provarono, come se questi fossero noiosi esercizi accademici. Invece andava fondato su un ripensamento profondo di due culture politiche, quella del cattolicesimo democratico e quella del comunismo italiano, entrambe molto particolari in vista di un progetto condiviso. Intendo dire che il progetto andava calato in una visione del ‘900 alternativa a quella semplificatoria ed unilateralistica che si era imposta grazie alla “rivoluzione neo conservatrice” negli anni ’80. Era difficile poi farne nascere qualcosa che non fosse un partito messo in piedi nel disfacimento di un sistema politico a cui non è mai stato sostituito un altro che avesse anch’esso un forte radicamento nazionale. Siamo nati in un periodo di decostruzione della nazione italiana, del sistema politico italiano, d’implosione delle culture politiche che avevano costruito la modernità democratica dell’Italia, entrandoci dentro soltanto con un’abbreviazione illusoria.

Quale era questa abbreviazione illusoria?
Che tutto dipendesse dalla crisi della decisione. E che quindi bastasse inventarsi delle leggi elettorali plebiscitarie o maggioritarie e tutto il resto ne sarebbe conseguito. E abbiamo visto cosa ne è conseguito. Abbiamo favorito l’espressione più o meno innovativa, più o meno apprezzabile, più o meno godibile, di nuove culture della destra, se vogliamo usare questo termine. Che significa poi cose molto antiche, conservatorismo, autoritarismo, la riduzione dei diritti a diritti individuali, e questo ha avuto maggiore impulso dalla sinistra. Insomma, una marmellata in cui non si capisce bene in che misura l’individuo, che è anche cittadino, esercita quel frammento di sovranità che secondo la Costituzione gli è conferito attraverso la partecipazione all’espressione individuale del voto. Senza aver minimamente ripensato a tutto questo, come se stessimo fondando la modernità democratica della nazione italiana non alla fine degli anni ’80 ma 150 anni prima, più o meno negli anni ’30 dell’800, quando l’Italia non era nemmeno unita.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.