La pace, una parola diventata impronunciabile. E una guerra che estende i suoi confini al di fuori dell’Europa. Il Riformista ne discute con Lucio Caracciolo, direttore di Limes, la più autorevole rivista italiana di geopolitica.

“Meglio perdere un pezzo di sovranità e risolvere i conflitti. Invece di prendere le armi, discutiamo. Qualcuno faccia davvero da arbitro dunque, per far sì che il fratello non ammazzi il fratello”. Così il presidente della Conferenza episcopale italiana, cardinale Matteo Zuppi. Anche lui è un filo-Putin?
Certamente no. Semplicemente siamo in una fase in cui parlare di pace è diventato quasi un esotismo. Tradotto in termini pratici primum vivere. Se tu non esisti non puoi nemmeno trattare.

Quel “qualcuno” invocato dal presidente della Cei può essere l’Europa?
Ovviamente no dato che di “Europe” ce ne sono qualche dozzina. Una cosa se trattasse un polacco, una cosa, una cosa se trattasse un francese, una cosa se lo facesse un italiano, un’altra ancora se a trattare fosse uno svedese. In Europa esistono punti di vista molto diversi. Per riassumere: uno fondamentalmente dell’Europa del nord-est, schierata contro la Russia, che sostiene essere questa l’occasione buona per finirla una volta per tutta con la minaccia di Putin. E un’altra, sempre prendendo la posizione più estrema, si tratti purchessia, chiudiamo questa guerra e non se ne parli più. Entrambe le posizioni mi paiono piuttosto irrealistiche. La seconda più della prima.

Non voglio farle indossare i panni dell’”indovino”. Ma da eminente geopolitico quale è, le chiedo: è ipotizzabile una soluzione negoziale che riporti la situazione a prima del 24 febbraio, il giorno dell’invasione russa dell’Ucraina?
No. Questa soluzione può essere ottenuta solo sul campo di battaglia. È chiaro che i russi non rinunceranno spontaneamente in ambito negoziale a quel territorio che hanno conquistato ed è anche chiaro che gli ucraini non cederanno un millimetro rispetto ai confini del 1991. Questo ci riporta alla domanda iniziale. Ovviamente sarebbe ottimo se si arrivasse ad una soluzione negoziata del conflitto ma io non penso che sia possibile. L’unica cosa che si può negoziare è qualche cessate-il-fuoco.

Quanto pesano oggi gli ultranazionalisti nell’assetto di potere russo?
Diciamo che non solo nel potere russo, questo è il momento degli ultranazionalisti un po’ dappertutto. Per quanto riguarda il potere russo, più che nazionalisti direi imperialisti. Sono comunque in questa fase assolutamente dominanti. E non è solo questione di apparati. È che l’idea di impero russo è piuttosto radicata nella cultura di quel Paese e le frange che in una guerra si oppongono a quella che loro considerano di fatto, anche se non lo dicono, una guerra patriottica, sono piuttosto limitate. Da questo punto di vista, non confonderei le diserzioni e le fughe in Occidente come manifestazioni di alternative politiche. Sono semplicemente frutto della disperazione.

Limes ha dedicato alla guerra in Ucraina diversi volumi, che hanno registrato un significativo successo. Partendo da questa esperienza editoriale e dalle tante iniziative in giro per l’Italia a cui lei ha partecipato, le chiedo: quale sensibilità c’è nell’opinione pubblica italiana, almeno in quella culturalmente più attrezzata, rispetto a questo conflitto e alle dinamiche determinatesi?
C’è molta preoccupazione, in alcuni casi anche paura, scarsa coscienza, io credo, di quale sia la situazione e di quale sia la posta in gioco, anche perché non siamo più abituati in generale al pensiero strategico e più specificamente al fatto che siamo in un mondo in cui tornano a galla questioni geopolitiche territoriali che parevano risolte una volta per tutte e che oggi sono tutte di nuovo sul tavolo, dentro e fuori l’Europa.

A proposito di fuori Europa. Molto si sta scrivendo sui droni kamikaze iraniani utilizzati dalla Russia sul fronte ucraino. Non c’è il rischio che la guerra in Ucraina si “mediorientalizzi”?
Più che un rischio direi che è un fatto. Nel momento in cui i russi sono in Siria, l’Iran è nelle condizioni disastrose in cui si trova, Israele pur essendo un Paese con una forte presenza russa e con forti legami con Mosca, sembra più muoversi ora verso l’Ucraina uscendo dalla posizione di semi neutralità che ha tenuto finora, penso che le cose si leghino. E quindi che la partita iraniana e quella russa hanno parecchi punti di contatto. D’altronde a quanto pare gli iraniani non mandano solamente droni ma anche gente sul terreno.

Un altro player importante in questa complessa vicenda è la Turchia di Recep Tayyp Erdogan. Che gioco sta facendo il sultano di Ankara?
Un gioco totalmente autocentrato, basato sull’idea che lui ha degli interessi nazionali turchi, cioè quello di riportare la Turchia al rango di grande potenza giocando in maniera assolutamente scaltra e senza remore contemporaneamente su più tavoli. È uno dei tavoli è quello di fa diventare la Turchia nuovo hub di trasporto dell’energia russa e centroasiatica verso l’Europa. Una sorta di polo sud rispetto a quello nord che si è almeno al momento esaurito, quello via Germania, che potrebbe essere anche di nostro interesse.

In precedenza abbiamo parlato degli assetti del potere russo. Limes non ha atteso il 24 febbraio per ragionare su cosa si muove in quell’area e anche sull’Ucraina. Al di là della “beatificazione” mediatica del presidente Zelensky, in che modo si potrebbe e dovrebbe raccontare lo stato della democrazia in quel Paese?
Prima della guerra, l’Ucraina era una democrazia in costruzione. Il punto vero è che il potere in Ucraina è stato detenuto in tutto il periodo recente da un gruppo di oligarchi, alcuni schierati con Mosca, altri filo occidentali ma tutti fondamentalmente centrati sui propri affari, che hanno dato il tono del potere ucraino attraverso dei leader politici di loro gradimento e riferimento, salvo quando direttamente non sono andati al potere politico. La speranza è che alla fine della guerra questo sistema oligarchico finisca e che l’Ucraina possa in pace percorrere una strada libera e democratica. Purtroppo, però, la guerra non favorisce questi processi.

Al netto di vodka, lambrusco e solenni giuramenti di fedeltà atlantica, che figura sta facendo l’Italia in politica estera?
L’Italia ha mantenuto finora una posizione sostanzialmente allineata con quella dei Paesi dell’Europa occidentale, in particolare Francia, Germania e Spagna, e naturalmente a Washington. Questa è stata la linea di Draghi e del governo italiano finora. Con un profilo relativamente basso dato che certamente non siamo decisivi in questa partita. Quello che è cambiato dopo il 24 febbraio è che la storica russofilia italiana si è dimostrata inerte ed è stata a questo punto totalmente rovesciata, tanto è vero che la Russia ci considera un Paese ostile. Per noi italiani che abbiamo sempre avuto, aldilà delle preferenze politiche in ogni tipo di regime, una notevole simpatia e affinità con la Russia, questo è un cambio fondamentale di paradigma.

Le esternazioni di Berlusconi hanno scatenato un putiferio. Lei che idea si è fatto?
Al di là del caso specifico, significa che questo Paese evidentemente non si è reso conto che siamo in guerra. Noi abbiamo fatto tutta la campagna elettorale come se fossimo in una normale situazione di pace. Non è così. Noi siamo oggettivamente in guerra, che la Russia ci considera un Paese ostile e che facciamo parte di un’alleanza che non ha dichiarato guerra alla Russia ma di fatto appoggia, anche militarmente, l’Ucraina. Quanto a Berlusconi, lui quelle cose le pensa da sempre e le dice da sempre. È un fedelissimo amico di Putin a differenza di molti che lo sono stati fino al 24 febbraio per poi far finta di non averlo conosciuto. Questa cosa potrebbe rivelarsi alla fine salutare. Perché la premier in pectore, Giorgia Meloni, ha fatto una nota che trovo assolutamente corretta e poi perché sarebbe il caso che il Parlamento si occupasse di quello che sta avvenendo attorno a noi. Perché un Paese che ha una maggioranza in cui il partito chiave, perché senza il partito di Berlusconi non c’è Governo, dice noi siamo dall’altra parte della barricata, cosa legittima ma allora non c’è più il Governo.
Ma siccome siamo in Italia e il Governo sicuramente si formerà, almeno facciamo chiarezza. Tanto più che, toni coloriti a parte, le considerazioni di Berlusconi sono parte di una corrente di pensiero molto diffusa e che va ben aldilà di Forza Italia,

Oggi, nel 2022, che cosa s’intende essere atlantisti?
Buona domanda. Risposta breve: stare con gli americani. Risposta un po’ più lunga, cercare di capire a quale sotto raggruppamento Nato appartenere. Perché è ormai evidente che, per esempio, la Nato baltica, per semplificare, quella che a guida polacca comprende i baltici e in buona misura anche gli scandinavi che hanno una posizione nettamente anti russa, nel senso che non solo bisogna battere la Russia ma bisogna spaccarla. Poi c’è la Turchia che nella Nato gioca per conto suo, si considera un impero in costruzione; poi c’è la Germania che ha una posizione fondamentalmente ambigua e che quanto a rapporti con la Russia ne aveva molto e molto più forti di quelli che ne avevamo noi, e che quindi da una parte cerca di negoziare e di ammorbidire le posizioni della Nato baltica e dall’altra è abbastanza sconcertata e fuorigioco perché ha perso l’interdipendenza energetica. C’è la Francia che vuole ad ogni costo esibire un rango di grande potenza che oggi non corrisponde ai suoi mezzi. E c’è l’Inghilterra che per principio sta dov’è l’America anzi un passo avanti, tant’è vero che ogni tanto gli americani gli dicono di calmarsi. Di grazia, a quale Nato presteremmo giuramento di fedeltà?

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.