A trent’anni da Tangentopoli il tema dei condizionamenti tra magistratura e politica è ancora molto attuale, e resta un nodo irrisolto. Ne parliamo con l’avvocato e professore Vincenzo Maiello, giurista e colonna della Federico II, protagonista di importanti battaglie dell’Unione Camere penali e, tra gli altri, di un applaudito confronto in punta di diritto con Piercamillo Davigo in occasione del dibattito organizzato dagli avvocati napoletani con l’ex pm di Mani Pulite, a Castel Capuano, nel febbraio 2020.

Partiamo dal dato storico: Tangentopoli. Cos’è stato e quali conseguenze ha generato?
«Mani pulite – il fronte giudiziario di lotta a Tangentopoli – è stata un insieme di cose, come ampiamente illustrato dalla storiografia di questi anni. La valutazione di ciò che quella vicenda ha rappresentato deriva, com’è scontato, dagli angoli di osservazione. Se, a dispetto del tempo trascorso, residuano tuttora perplessità e scarsa chiarezza sul come un’ordinaria indagine per corruzione si sia rapidamente trasformata in una inchiesta epocale sulle relazioni incestuose tra le grandi imprese, i partiti di governo e i loro dirigenti, sono invece evidenti gli effetti che quella pagina cruciale di storia italiana ha prodotto sia sul piano della delega politica, sia nelle dinamiche fra i poteri dello Stato. Dal primo punto di vista, emerge la disarticolazione del quadro politico, segnata, per un verso, dalla dissoluzione dei partiti di massa protagonisti del governo del Paese e, per l’altro, dalla riconversione della rappresentanza parlamentare dapprima in chiave leaderistica, poi su base demagogica e populistica. Nell’ottica istituzionale, Mani pulite ha innovato la costituzione materiale del primo quarantennio repubblicano, ridefinendo i ruoli del legislativo e del giudiziario nei rapporti con il popolo. Sono accadute vicende dirompenti per gli equilibri dello Stato di diritto costituzionale: da un lato, la giurisdizione ha cessato di essere la ‘voce’ della legge e del diritto – quest’ultimo inteso quale impresa collettiva che coinvolge una complessità di formanti – divenendo cassa di risonanza delle aspirazioni popolari e suo diretto interlocutore. Dall’altro, il potere parlamentare – oggettivamente intimidito dal clima malmostoso dell’assedio giudiziario – si è ritrovato a svolgere funzioni ausiliarie all’azione repressiva della magistratura (non senza ambigua enfasi e sottili slittamenti semantici definita di controllo di legalità), venendo così meno alla propria funzione di indirizzo politico. Molti sono i fatti che ne costituiscono riprova: ci limitiamo a segnalare la cosiddetta dottrina Borrelli, che rivendicava con orgoglio l’ancoraggio dell’agire giudiziario alla “sensibilità media del popolo”, e l’appello televisivo rivolto dagli esponenti del pool contro il decreto-legge Biondi. Questa ricerca di legittimare l’azione giudiziaria ‘dal basso’ della piazza – anziché dal piano alto della divisione costituzionale dei poteri – ha inciso sugli approcci interpretativi e sulla conformazione applicativa della legge penale e delle regole processuali, oscurandone la funzione di garanzia di cui è presidio il loro carattere controintuitivo ed antilogico».

Quanto la politica si è messa nelle condizioni di essere commissariata dalla magistratura e quanto la magistratura ha sconfinato in un campo non suo?
«Sullo sfondo ci sono le molte facce della questione morale e i nodi irrisolti del finanziamento della politica. È indubbio che le indagini degli anni novanta hanno affondato il bisturi della repressione nel mare magnum della corruzione sistemica, un gigantesco Golem di grandi e piccole illegalità prosperate nel sottobosco di una politica disattenta alla selezione del proprio personale. Certo l’azione giudiziaria non avrebbe conosciuto le dimensioni e le punte di pervasività, raggiunte specie nei confronti dei membri del Parlamento, senza la riforma dell’articolo 68 della Costituzione».

Cosa occorrerebbe per ristabilire un equilibrio tra questi due poteri: politica e magistratura?
«Oggi sta crescendo la sensibilità e l’interesse verso forme e strumenti di salvaguardia della politica nei rapporti con il potere giudiziario. In questa prospettiva, occorrerebbe riflettere sul ripristino dell’autorizzazione a procedere, se del caso affidandola ad un organo a struttura mista cui demandare la valutazione del fumus persecutionis. Fuor di ogni discorso politically correct, andrebbero, poi, anche rimodellate le fattispecie penali riguardanti le condotte della politica, espungendone quegli elementi di accentuata porosità semantica che consentono di avviare con facilità indagini. Penso, ad esempio, a tutti quei reati-accordo fondati sul mero impegno ad attivarsi, in altri termini sulla semplice promessa. Sono quelle figure di reato che, a causa della loro impalpabilità, ma anche della forte carica simbolica, sono all’origine di mega inchieste che impegnano risorse e anni di lavoro investigativo, e processuale, spesso sfociate nella scoperta di topolini insignificanti per il diritto».

Quale riforma, a suo parere, potrà davvero risolvere i problemi e i mali della giustizia?
«Una riforma organica che riguarda i codici, l’ordinamento penitenziario e le leggi di ordinamento giudiziario. Una politica autorevole dovrebbe assumere su di sé la responsabilità di progetti riformatori di ampio respiro: senza, e oltre, temo che siano operazioni di facciata che lasciano inalterate le cause delle patologie».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).